di Miriam Bocchino
È andato in scena al Teatro Lo Spazio lo spettacolo “Albania – Italia solo andata” della regista Melania Giglio.
L’opera, una produzione MAELI – Ricerca Teatrale, narra attraverso il racconto dell’interprete Marbjena Imeraj, la storia di una donna albanese, le sue vicissitudini di vita e la lotta fatta per raggiungere faticosamente i suoi sogni.
Una voce, quella di un dio “femminile”, si ode immediatamente: Marbjena, nascosta agli occhi degli spettatori, viene invitata a prepararsi. La donna, infatti, deve andare in scena tra soli 30 minuti, l’interpretazione del “Gabbiano” di Cechov l’attende per calcare il palcoscenico. La voce, tuttavia, fa scaturire in lei il ricordo di ciò che ha dovuto affrontare e superare per raggiungere quel preciso momento.
“Tutti hanno sofferto ma qualche sofferenza in più degli altri l’ho avuta”.
La storia narrata allo spettatore è imperniata di sofferenza, dolore, abuso e pregiudizio.
Marbjena non ha più una casa: la guerra ha spezzato via il suo posto felice.
Il luogo in cui viveva con la famiglia, composta da 6 figlie femmine, nel nord-ovest dell’Albania, al confine con il Montenegro, non esiste più: i colpi di pistole, il rumore delle sirene e la distruzione della città hanno reso la sua infanzia felice un amaro ricordo, nonostante la caparbietà dei genitori nel mantenere salda l’esistenza con i giochi e i sorrisi.
La donna ricorda la forza del padre attraverso una vecchia divisa da colonnello dell’esercito, sostituita dagli abiti civili per salvaguardare i propri ideali e la madre grazie al ricordo della sua comprensione e dell’amore incondizionato.
La fede, vissuta non come una costrizione ma come un momento di gioia, viene narrata nelle sue diverse sfaccettature: quel dio con cui oggi la donna parla è divenuto, nel corso del tempo, portatore di rabbia per la guerra combattuta in suo onore e disillusione per un’esistenza di inciampi e dolori.
“Albania – Italia solo andata” è uno spettacolo reso incisivo dall’interpretazione di Marbjena Imeraj: le sue parole e la gestualità con cui calca il palcoscenico riescono a soprassedere sulla retorica di cui l’opera è permeata. Il testo, purtroppo, nonostante racconti la storia di molti, vive il limite del “già visto” e del “già sentito”.
Marbjena incarna la storia di un popolo osteggiato, vittima di pregiudizi e alla mercè dei luoghi comuni ma i tanti elementi, forse troppi, non consentono di soffermarsi in modo empatico sugli aspetti raccontati. Si intuisce, sfortunatamente, una ridondanza che avrebbe dovuto lasciare il posto a una nuova originalità testuale.
“I gradini della vita vanno lenti,
a volte pensando che sia finita.
Altre invece saltelli illudendoti
che siano eterni.
Altre scivoli sprofondando negli abissi
senza più speranza,
ma poi è lì che la nostra natura ci salva.
Vorrei essere un bambino,
per avere del tempo infinito.
Sbagliare senza preoccuparmi,
per ridere di tutto
e piangere di nulla.
Giocare con una sorella
Ormai morta
e dormire ancora sul petto di una madre.”