Al Quirino si allude al Gattopardo litigando sui fagioli al sapor di castagna

Due giorni fa mi è stato chiesto, da persona addetta ai lavori, quale criterio ci fosse per giudicare uno spettacolo. Pirandellianamente si potrebbe rispondere che i criteri sono uno, nessuno e centomila; tanto che il sottoscritto non saprebbe individuare né un barometro del buon gusto, né un metro di recitazione e nemmeno un contagocce per le sfumature registiche; una sola cosa è certa: mai l’ipotetico criterio di tizio per valutare un allestimento potrebbe essere simile a quello di caio. Ogni spettacolo, suppongo, andrebbe esaminato a sé, a cominciare dalla locandina che è la carta d’identità di ogni rappresentazione: e se il nome della produzione corrisponde a quello di un Teatro che annoveri la parola Stabile, o se l’egida si indentifica in un ente pubblico, magari Regionale (attenzione alle maiuscole), allora certamente il giudizio sarà più severo rispetto a uno spettacolo la cui produzione è sconosciuta oppur precaria. Sarà anche diverso il rigore del critico se la recita si svolge in un locale cosiddetto off, piuttosto che in un teatro tradizionale.

Questa premessa per sottolineare quanto le aspettative di Amori e sapori nelle cucine del principe scritto da Roberto Cavosi siano state deluse. Si legge infatti in locandina che lo spettacolo – diretto da Nadia Baldi e in scena al teatro Quirino di Roma – è stato promosso da La Contrada Teatro Stabile di Trieste, centro di produzione riconosciuto dal Ministero, oltre che dall’Ente Autonomo Regionale Teatro di Messina. Insomma, sulla carta, doveva essere un allestimento da serie A, anche se (lo sappiamo bene) nessun teatro naviga più in acque serene.

I dubbi nascono subito, confrontando il titolo con le prime battute: da una parte si legge che la vicenda si svolge «nelle cucine del principe», sul palcoscenico invece si deduce che i protagonisti si trovino nelle cucine della casa di tal don Diego che accoglie il principe alla sua mensa e per lui occorre preparare un banchetto assai prelibato.

Il testo si sviluppa intorno alla figura del fantomatico principe. Bene, di chi si tratta? Il nome non viene rivelato, ma ecco alcuni indizi: siamo nel sud, siamo in Sicilia, lo si capisce dalla parlata soprattutto di Carlo, figlio di Teresa la cuoca; tra gli invitati c’è don Calogero, marito gelosissimo che tiene la moglie Bastiana sottochiave; don Calogero ha una figlia bellissima che andrà in sposa al nipote del principe; il quale ama frequentare prostitute, un peccato che confessa regolarmente (più per sfregio che per senso di colpa) al suo confidente che è anche prete e quindi vincolato dal segreto; il principe è un uomo raffinato, una mente a suo modo colta, con uno spiccato senso per la politica tanto che dice (e la frase viene ripetuta testuale nella commedia): «Tutto deve cambiare affinché tutto resti come prima». I riferimenti al Gattopardo non finiscono qui, ce ne sono anche altri. Insomma si tratta inequivocabilmente del principe di Salina, don Fabrizio. E l’episodio narrato da Cavosi è tratto dalla sesta parte del capolavoro di Tomasi di Lampedusa, quando il protagonista del romanzo con la famiglia è invitato al ballo a Palazzo Ponteleone, proprietà di don Diego che nobile non è.

L’argomento, dunque, è molto aristocratico. Tuttavia per il valore letterario che il romanzo ha rappresentato per il sud e per l’Italia tutta, il richiamo dal palcoscenico a questo mondo elitario ormai in via d’estinzione meriterebbe maggior rispetto: parlarne troppo a lungo in una cucina (rivestita candidamente nell’idea luminosa e simbolica di Luigi Ferrigno) attraverso una disputa insistita sui fagioli che sanno di castagne o su un furto di ricette culinarie sottratte a Monzù Gaston, sinceramente sembra un po’ irriverente, soprattutto per lo scarso sostegno drammaturgico al cospetto dell’importanza storica che il libro rappresenta. Verrebbe perfino da fare il paragone con un film di Robert Altman del 2001, «Gosford Park», in cui liti e intrighi tra il personale di servizio vengono proposti con il rigore e la disciplina che compete a un ambiente nobiliare senza mai travalicarlo. Qui, s’è detto, non siamo in una cucina blasonata, ma tra l’invito a cena del principe di Salina e l’esibizione di alcuni preziosi abiti di Carlo Poggioli, una certa aria gentilizia la si intuisce, purtroppo però misteriosi «raggi della luna» (sic!) ne oscurano la luminosità.

Brava e convincente Enza De Rose nella parte di una ragazza in preda ai bollenti spiriti che brama diventar donna. Anche se «il riempirsi di ricotta» per raggiungere lo scopo è parso un consiglio alquanto inusuale!

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Amori e sapori nelle cucine del principe di Roberto Cavosi, con Tosca D’Aquino (Teresa), Giampiero Ingrassia (Monsù Gaston), Giancarlo Ratti (Culicchia), Tommaso D’Alia (Carlo), Enza De Rose (Rita), Francesco Paolo Ferrara (Peppe). Scene di Luigi Ferrigno. Costumi di Carlo Poggioli. Regia di Nadia Baldi.

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