Accecati dalla verità, devastati dal numinoso

Tempesta di voci e luci a scolpire il tormento.

Uno splendido concerto di umano e trascendente questo Edipo re di Andrea De Rosa, da un po’ in tournée per l’Italia, e ora approdato al Vascello di Roma. E che rende bene la natura del tragedismo greco, nel suo tentativo di scolpire la luce dell’umano nella sfida col fato e col numinoso. Tra hybris ragione ed umiltà, per tentare di disegnare una impossibile via della legge e della giustizia nell’eredità del caos del sangue della vendetta. Nel teatro della sete di sangue del divino e del fato, portatori dell’imperscrutabile. 

Edipo Re

Edipo e la Sfinge.

Il volto del numinoso cela l’abisso, così come il volto umano della Sfinge cela la bestia, il numinoso arcaico che divora gli uomini nel delirio di morte delle forze primordiali.

La Sfinge, simbolo delle divinità pre apollinee, prima della luce della legge della ragione, è noto, viene sconfitta da Edipo, che riesce a risolvere l’enigma, enigma al cui centro c’è la definizione della fragilità umana, dalla nascita alla vecchiaia e alla morte (a quattro zampe, a due, a tre). Ed Edipo appare al contempo tracotante e pio. Tracotante nell’uccidere Laio che gli sbarra la strada, attuando inconsapevolmente la profezia da cui fuggiva, e tracotante quando ormai al potere a Tebe, non vuole vedere la verità, accusando Creonte e l’indovino, Tiresia, di complotto contro di lui.

Pure alla base in lui erano pietas e amore della legge. Per non avverare la profezia (ucciderai il padre, farai figli con tua madre) lascia infatti il regno ed i genitori, senza sapere che sono genitori adottivi. E’ innocente, vittima delle forze del fato, del loro inganno. Si potrebbe dire che la Sfinge non lo ha divorato per divorarlo meglio dopo. 

E che le forze numinose gli hanno dato l’illusione di vedere per meglio accecarlo. 

E così, lui che vorrebbe salvare Tebe dalla peste, trovando l’assassino di Laio, lui che vorrebbe giustizia, paradossalmente si trova a dover negare la giustizia, per poi diventare la vittima sacrificale di una giustizia ingiusta. E nel paradosso del vedere-non vedere, si cava quegli occhi che non seppero vedere, e che ora non possono sopportare la luce della verità. Una luce che acceca, pugnala, ferisce.

Vedere e non vedere. 

L’inconscio che affiora, direbbe Freud, che di questo testo ha fatto l’archetipo della psicanalisi. Ma le voci intorno incalzano, voci esterne che diventano sempre più voce interiore. Cantano, spingono, urlano, ammoniscono, e sempre più la luce squarcia e ferisce, in un progressivo approfondirsi del crollo.

Voci senza volto che disegnano una verità senza volto, senza sguardo. E poi sempre più volto e corpo, e fragilità corporea, fino alla danza frenetica, allo smorire tra lutto e disperazione.

Il testo è quello. Fedelmente, anche se splendidamente ritradotto da Sinisi. 

Edipo viene a sapere dalla madre, Giocasta, del figlio suo e di Laio, abbandonato in un bosco per esorcizzare la profezia, uguale a quella di Edipo, e pian piano sospetta di essere lui, fino alla certezza quando si chiarisce che il re da cui è fuggito era un padre solo adottivo.

A lungo Edipo e Giocasta si sostengono, nel dubbio e nella negazione. 

E lei – una morbida e dolente Frédérique Loliée – alterna con lui diplomazia (per proteggere il fratello, Creonte), e condivisione dell’ansia e della fragilità del dubbio, in teneri abbracci, per approdare alla fine alla protezione materna, quando lo culla, sdraiato a terra, piangente, terrorizzato dalla colpa che sente venire. Ancora si rialzeranno poi, ma per poco, tra urla, polemiche con gli dei, negazione. 

Fino all’esplodere della verità.

Sì, perché mentre Giocasta – rubando le parole al coro, tenta di allontanare l’amaro calice immaginando Edipo come figlio di Pan o di Dioniso – mentre urla disperata ad Edipo di non indagare, dal fondo scena, sul basso continuo di un battito cardiaco, la verità esplode in avanti, contro il pubblico, abbagliato dalle luci, accecato come Edipo dalla verità.

Esplode in avanti nella figura di Roberto Latini (Tiresia, Apollo, il messaggero) che, a gambe piegate e mani sul volto, epilettico, convulso, danza la disperazione prima di Giocasta poi di Edipo, e a ritmo crescente, battente, riassume e profetizza: le nozze con la madre, la verità che si mostra, Edipo che si acceca.

Latini usa tutto il suo carisma vocale, una fiumana sonora ondulatoria, sempre sospesa in levare, tra urlati e bassi profondi e serpentini, per approdare ad un tremulo struggente, sempre sospeso, battendosi la bocca con le mani come un pellerossa.

Giocasta ora giace a terra, morta, e Creonte (un Fabio Pasquini sempre civile e misurato) la ricompone pietoso, mentre dal coro si levano prolungati stridii di corvo.

Poi Edipo, chiedendo al contempo l’esilio per sé e pietà per le figlie, ormai cieco, brancola a quattro zampe verso il pubblico. Poi da terra leva, a mo di bastone a cui appoggiarsi, un tubo al neon, che ci acceca nella scena ora abbuiata. 

E mormora, “Una nube è scesa su di me. Il mio buio”. 

Poi, cieco, ci guarda da dietro un vetro, a cui ora appoggia il bastone luminoso, orizzontalmente, come a sbarrarci la vista.

Siamo regrediti dall’uomo in piedi allo smarrimento dell’infanzia, lui carponi, al vecchio fragile del bastone (le tre gambe dell’enigma). 

La Sfinge, vorremmo dire. L’enigma del destino, dove indovinare non salva.

E poi eccoci alla sbarra di luce.

Come la Sfinge è all’inizio di tutto, così la sbarra di luce, il volto sbarrato, è il segno che inaugura e chiude lo spettacolo.

La scena di apertura è infatti sbarrata da una fila di sei scudi in plexiglass trasparente, macchiati di vernice bianca a colatura (lavori in corso?), ma soprattutto attraversati da una striscia bianca, dietro cui i volti e le voci all’inizio risultano anonimi (verità oscura), tra canti in greco ed anticipazioni coreutiche.

Poi la scena si apre, come la bocca di una tigre.

Le coorti di vetro si allineano ai due lati, come una tenaglia pronta a stritolarti. 

Come le fauci della Sfinge.

Al centro, di spalle, su una sedia, Edipo. A processo?

Sullo sfondo pannelli rivestiti di stagnola dorata, e tubolari verticali al neon, creano l’iconostasi accecante del numinoso, dove si staglia, inquietante ed in ombra, l’avversario, di fronte ad un Edipo umano, troppo umano (un magistrale e sofferto Marco Foschi). 

Edipo: seduto, poi in piedi a lottare inquieto, poi vinto a terra, stritolato dalla camera della tortura della verità, fattasi luce e suono, urlo di corvi, e ossessiva persecuzione interiore. “Sei tu .. sei tu” incalza senza requie una voce off (gli dei, il coro, la coscienza?). Tutto ciò mentre talora la pietà si articola in melismatici cori in greco, su musiche di Demetrio Stratos, cullando e lenendo il lutto inesorabile.

Edipo Re

Apertura e chiusura magistrali. La tragedia come macchina scenica geometrica. Concerto divorante contro l’umano, che lo stritola ed esalta. Forma e contenuto in un urlo di luce. E il pubblico applaude.

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Edipo re, di Sofocle – traduzione Fabrizio Sinisi – adattamento e regia Andrea De Rosa – Con Marco Foschi (Edipo), Roberto Latini (Tiresia, Apollo, Messaggero), Frédérique Loliée (Giocasta), Fabio Pasquini (Creonte), Francesca Cutolo (Corifea), Francesca Della Monica (Corifea) – scene Daniele Spanò – luci Pasquale Mari – suono G.U.P. Alcaro – costumi Graziella Pepe costumi realizzati presso il Laboratorio di Sartoria Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa – assistenti alla regia Paolo Costantini, Andrea Lucchetta – produzione TPE – Teatro Piemonte Europa, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, LAC Lugano Arte e Cultura, Teatro Nazionale di Genova, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale – Teatro Vascello, Roma, 4-9 marzo 2025