Intervista al giovane regista di “La traiettoria calante“
Pietro Giannini, giovanissimo regista e attore (classe 2000) approda al Romaeuropa Festival, al Mattatoio, il 2 e 3 ottobre, con lo spettacolo La traiettoria calante in cui affronta la tragedia del crollo dal ponte Morandi, a Genova, sua città natale, nel 2018. E’ un progetto maturato all’interno del progetto Powered by REf (Romaeuropa Festival 2024 – ANNI LUCE – Osservatorio di futuri possibili), rivolto al sostegno e alla promozione di artisti emergenti tra i 20 e i 30 anni. Lo spettacolo è prodotto dal Nazionale di Genova, e dopo Roma andrà in scena a Genova, dal 26 novembre al 13 dicembre, in Sala mercato.
Lei sembra collocarsi con il suo spettacolo nel filone del teatro di narrazione. Si potrebbe pensare al Marco Paolini di Il racconto del Vajont (1993) sul crollo della diga, nel 1963. Quella era una cronistoria indagine accusa, dal punto di vista di un narratore esterno. Qui lei sembra invece coinvolto anche come personaggio, in chiave autobiografica ed emotiva. Cosa aggiunge questo all’intervento politico e alla densità teatrale?
Fin dal primo momento che ho iniziato a lavorare a questo spettacolo, sapevo che il paragone con un grande artista come Paolini sarebbe stato inevitabile; non tanto per il linguaggio o l’interpretazione, quanto per la decisione di un interprete-autore di mettere in scena la storia di una tragedia. La somiglianza credo stia più nell’operazione che nell’effettiva messinscena. Il mio è inevitabilmente uno spettacolo di narrazione, per quanto penso che ogni spettacolo sia una narrazione, una narrativa, una storia. Cambiano gli espedienti drammaturgici, le funzioni attraverso cui questa narrazione arriva allo spettatore. Per La traiettoria calante il personaggio in scena non volevamo che descrivesse degli avvenimenti senza viverli sulla propria pelle. Il personaggio è costantemente diviso tra un io personale (atto I e atto III) che cambia, brucia e infervora con l’attraversamento dell’io civile e pubblico. Lo spettacolo è attraversato – e questa credo sia la sua forza – da una genuina innocenza del protagonista che sfocia in indignazione e rabbia. Questo nel filone del cosiddetto “teatro di narrazione” avviene in modalità diverse rispetto a quelle da noi adottate.
Lei si paragona, come attore in scena ad Amleto. In che modo la colpa di essere vivo si sana con la testimonianza? Amleto deve uccidere. Qui l’attore uccide la menzogna?
Amleto ha – senza alcuna volontà – ereditato una colpa. Probabilmente se Amleto avesse chiuso gli occhi, se non avesse in alcun modo dato adito alla voce lontana del Padre che lo chiamava dall’oltretomba, avrebbe vissuto una vita più serena. Una vita che ignora la verità, ma più serena. Trovavo Amleto una figura molto coerente con quella che mettiamo in scena. Tutti noi potremmo (come il protagonista) chiudere gli occhi e proseguire la nostra vita senza ascoltare le voci lontane. Non nego che certe volte ho pensato che potesse essere meglio lasciare questa storia. Sarebbe più facile. Vorrei poter tornare a Genova senza il magone, riacquistare la disillusione che avevo prima di una ricerca così pesante…Eppure – un po’ per volontà un po’ per caso – ho tenuto gli occhi aperti quel tanto di più da non poter tornare indietro.
Sono un Amleto destinato ad uccidere? No. La colpa che sento gravare sulle spalle e che devo vendicare penso di starla combattendo già con piccoli gesti quotidiani, con la testimonianza, con la verità. La verità. Amleto mette in scena la verità, ed è in quel momento che uccide veramente, che tutto cambia.
Lo spettacolo di Paolini arrivava 30 anni dopo il disastro. Era un atto di memoria e d’accusa. Non dimenticare perché non si ripeta. Qui il teatro entra prima che la memoria si spenga, e a processo ancora in corso. Lei parla del dramma come azione e come tragedia. E il risvolto politico sembra essere il dare al teatro una funzione di azione, nel vivo del processo. Come si declina questo nello spettacolo?
L’artista (o comunque lo scrittore, l’attore) deve tornare ad essere un antibiotico della democrazia. Esporsi – in questo frangente politicamente – è un dovere di chi sale sul palco. Troppo spesso ormai non ci si espone più, nemmeno nelle sedi opportune. Quando si parla di teatro civile, molto spesso questo viene inteso come un teatro che racconta fatti storici più o meno rilevanti che incidono sulla nostra società. Io non credo sia questo. O almeno, non credo sia ciò che voglio fare. Il teatro civile – per come lo intendo io – non deve parlare alla pancia di chi ne fruisce, deve parlare alla testa. Con La traiettoria calante ho voluto mettermi in gioco con l’esplorazione di un sentimento che è molto difficile da trovare: l’indignazione. La missione dello spettacolo è, in primis, far uscire lo spettatore più cosciente di quando è entrato. Nella scena questo si traduce in una drammaturgia dove è sospesa la trama e, più ampiamente (e vengo al punto), dove chi è in scena non ha alcun timore di esporsi, di parlare di ciò che accade nel momento stesso in cui lui sta parlando e che è ancora in corso di svolgimento. Il processo è ancora in corso, certo, ma chi vieta ad un artista di parlare di un qualcosa ancora in atto? Perché spesso si ritiene sia più facile parlare di un periodo storico dopo che questo è passato? La realtà processuale è qui, è intorno a me, al personaggio, al drammaturgo, al regista, ma la verità di ciò che è stato (l’incuria, le malversazioni) sono storia, la storia che ha portato alla tragedia di cui parlo. Sono i tre tempi: passato, presente e futuro. Sono tre atti che noi chiaramente ricreiamo. Dunque ritengo al tempo stesso di parlare di qualcosa di estremamente attuale (e mutevole), come di qualcosa di radicato nella nostra società, nella società italiana. Passato e presente, in questo caso, creano universalità.
Lei come attore in scena, qui, quanto è vittima e quanto giudice?
E per parafrasare una domanda che lei stesso si è posto, come dà voce ai figli orfani ? Quale lingua parla ? Quella di chi è stato o quella di chi resta, e come riesce a declinare questo come drammaturgo, e come attore in scena?
La lingua parlata deve essere lingua agita. L’azione, purtroppo, non può essere di chi non c’è più. L’azione appartiene a chi resta e, nel caso del mio spettacolo, a chi semmai tramanda. Non esiste nessuna parte dello spettacolo dove parli solo chi è stato. Quando chi è stato si espone, è sempre accompagnato da chi è ancora (fisicamente parlando). È una scelta, più o meno lecita. La ritenevo più coerente anche con la mia età, con quello che sono.
Lei dice …
La scena (del crimine) è nuda, niente più è rimasto; dopo le macerie, neanche più ricostruzione. Dominano il logorante vuoto, l’assordante rumore dell’assenza. Come si declina teatralmente questa scena nuda?
Nel nulla. Nell’essenziale. Dopo un crollo rimangono solo macerie. L’unico resto possono essere altre macerie, altri calcinacci, altri cadaveri.
Si riconosce nell’etichetta di ‘teatro di narrazione’, e vi è in quel filone qualcuno a cui ha guardato o a cui si ispira?
O comunque, c’è qualche figura a cui deve più che ad altri, e cosa?
Non mi piace catalogarmi, non penso serva. Come detto prima, credo che tutto sia narrazione. Sarebbe tuttavia ipocrita non dire che Davide Enia, Oscar De Summa, Ascanio Celestini, Gabriele Paolini o Marco Baliani, non siano esempi di teatro nazionale che hanno fatto del dramma sottoforma di monologo una vera e propria corrente. Tuttavia le mie ispirazioni sono persone diametralmente opposte da me, artisticamemte parlando, da Pier Paolo Pasolini, a Dario Fo, a Erwin Piscator. Quest’ultimo, specie per questo lavoro, è stata per me una vera illuminazione. Il teatro politico credo sia un libro fondamentale per chi, come me, vuole trattare certi argomenti in teatro.
Infine, in quest’Italia che sembra in generale svilire l’apporto dei giovani, quanta importanza ha avuto per lei il trampolino di lancio dell’Romaeuropa festival, e l’inserimento nel progetto Powered by Ref, e come funziona. E’ solo uno spazio produttivo, o fornisce anche stimoli e collaborazioni, incontri e sinergie?
Io sono estremamente grato a Ref. Mi hanno sempre trattato con estremo rispetto e professionalità, credendo in me, nel mio teatro, rispettando la mia idea. Non ho mai sentito alcun giudizio, anche se posso immaginare non sia sempre facile vedere un ragazzo di vent’anni che formula esigenze (sono anche molto testardo) per persone che da anni vivono di questo mestiere ad altri livelli. Devo ringraziare di cuore Fabrizio Grifasi, che ha sempre creduto in me e supportato anche quando poteva sembrare più facile non farlo, e Maura Teofili, che artisticamente mi è sempre stata vicino, mi ha sempre spinto a fare il massimo, a mettermi in discussione, a conoscere nuove persone, nuovi pareri. Ref è una grande vetrina del teatro europeo, dove ho incontrato personalità diverse, altissime, anime pure, creature coraggiose. Sono cresciuto esponenzialmente in un solo anno.