Il marciapiede e la vita.
Domenica 12 dicembre al teatro Lo Spazio di Roma. “Off per scelta”, o, come lo chiamo io, Casa Teatrale, perché l’aria di famiglia ti accoglie e ti avvolge con il suo angolo bar, la sua sala, i suoi spettacoli ben scelti, mai banali e i volti sempre sorridenti di Manuel Paruccini e Antonella Granata. Era in scena la replica finale di Uomini da marciapiede, di e con Pino Ammendola, anche regista, Pietro Bontempo e Giorgio Gobbi.
La similitudine con il film di Schlesinger del 1969, tratto dal bel romanzo di Leo Herlihy, lo scrittore degli emarginati, dei disingannati, dei rifiutati dal mondo, è solo nel titolo, perché sono storie diverse e diverse sono le disperazioni narrate e rappresentate.
L’argomento non è facile e l’interpretazione nemmeno.
La scenografia è necessariamente minimalista: un guard-rail, tre sedili arrangiati, tre uomini di vita, con i loro caratteri diversi, con la loro amicizia conflittuale, con la loro idea di identità sessuale, che, dal fondo del lago interiore dell’esistenza, si rende protagonista e parla di piacere, di natura, di scelta di vita, di mercimonio, di rifiuto, di vergogna, di cattiveria altrui.
Diciamo subito che non si tratta di teatro d’azione e, pertanto, avrebbe, forse, richiesto una punta di coraggio in più: l’escamotage di entrare ed uscire di scena per movimentare non serviva. Quello che propone Ammendola è un teatro di parola e la parola non patisce la mancanza d’azione, mi pare chiaro: in Aspettando Godot, Vladimiro ed Estragone attendono qualcuno che non arriva mai e restano lì, tutto il tempo; in Chi ha paura di Virginia Woolf, George e Martha mettono in moto un massacrante gioco della verità con i loro due ospiti, prigionieri di una stanza e di quattro sedie. Nel teatro di parola non serve altro, sul palco, se non la parola stessa. E le parole vanno ascoltate e vanno capite, possibilmente.
Dell’universo della parola l’Ammendola drammaturgo ha, in questo caso, esplorato aspetti interessanti, scivolando, però, su alcune macchie d’olio dovute a qualcosa di troppo e a qualcosa di troppo poco. Innanzi tutto ha ben esplorato l’aspetto riempitivo della parola, funzionale alla storia perché utile a cancellare il silenzio: «il troppo silenzio fa paura», come dice uno dei suoi personaggi, il troppo silenzio mette le persone di fronte a se stesse, anche quando non hanno intenzione di ascoltarsi o di vedersi. Particolare, poi, lo sviluppo dell’aspetto comunicativo: la parola assume il ritmo di una danza antica, una pavana, direi, con i suoi passi lenti che, tuttavia, raccontano il venirsi incontro e l’allontanarsi reciproco. Si alternano, infatti, incomprensione e comunanza. L’incomprensione è quella che graffia di più, come sempre. Pensiamo al personaggio interpretato da Ammendola, che ha origini napoletane: a volte cede ad un dialetto stretto che gli altri due non comprendono; e il dialetto è intimità. La barriera linguistica tra persone che dovrebbero parlare la stessa lingua, se, in superficie, strappa la risata, in realtà mette il pubblico di fronte alla profonda solitudine di chi prova ad essere se stesso e non viene capito. Anche Ciccio, il personaggio di Gobbi, sembra parlare un’altra lingua anche se non usa il dialetto: lui tenta di aprirsi, tenta di comunicare su un piano al quale gli altri non sono disposti ad accostarsi. Preferiscono rispondere con lo sfottò. Ne consegue l’immediata chiusura dopo la ferita.
Ho trovato singolare anche l’aspetto musicale della parola, che a me piace sempre molto: la cadenza data dalla geminatio di alcuni concetti, quel “non c’è nessuno” e quel continuare a vedere qualcuno che non c’è, entrambi portali per luoghi psicologici, che si sveleranno nel surrealistico perché di quel mondo sospeso. Meno accattivante l’aspetto umoristico, troppo cercato con battute spesso già sentite, che fanno un po’ scendere il tono del dramma, che distraggono; così anche quella parte di dialogo racchiusa nei ripetuti lamenti e nei cataloghi dei vizi e delle noie, nel tópos che, a volte, satura l’aria. E decisamente poco accattivante la parola urlata. Non l’ho mai amata. Suona come un tentativo di richiamare l’attenzione del pubblico quando l’attenzione è focalizzata sulle emozioni e l’urlo la distoglie. Quanto alla volgarità di alcune frasi, si può pensare connaturata all’ambiente in cui i tre personaggi si muovono, ma, forse, qualcosa in meno avrebbe comunque reso l’idea.
Buona la caratterizzazione dei personaggi. Non c’era dubbio: Pino Ammendola, Pietro Bontempo e Giorgio Gobbi sono tre grandi interpreti. Abbiamo Pietro (Bontempo), un romano fanfarone, apparentemente aggressivo che, in realtà, teme la sua stessa ombra e subisce le angherie violente della madre. Freud ci andrebbe a nozze, su questo punto. Poi c’è Pino (Ammendola), nei panni di un travestito napoletano con gli occhi che mostrano se stesso e le labbra che raccontano quel che di se stesso vuole mostrare agli altri. E, infine, il terzo uomo da marciapiede, ossia Ciccio (Gobbi), una dolcissima figura ottocentesca che dal fango della prostituzione non viene insozzata neanche per sbaglio. È lì per meretricio, certo, ma con il suo cesto da Mary Poppins, dove c’è il mondo, accudisce gli altri, si preoccupa per gli altri, vuole bene agli altri, compresi tutti gli animali, anche la piccola lucciola che muore e sappiamo tutti bene il significato che viene attribuito alla parola lucciola -. L’unico essere che non riesce ad amare è se stesso.
Siamo di fronte a tre uomini-isola: soli, tanto soli da non riuscire a vedere altro che la propria solitudine.
Il dialogo segue un arco: all’inizio i tre sembrano legati solo da un alternarsi di indifferenza e cattiveria reciproche; poi si dedicano ad un carosello di confidenze sugli affari altrui che ricorda I Pettegolezzi di Norman Rockwell, perché alla fine del carosello, il cicaleccio segreto viene sempre svelato, le parole pronunciate dietro le spalle tornano all’ignaro destinatario; infine riescono a capirsi, ma capirsi significa mescolare le proprie disperazioni e renderle ancora più ingombranti. E l’anima, si sa, ha spazi infiniti per tante cose, ma non per la disperazione. La disperazione, quando supera la capienza dell’anima, trabocca.
Si segue abbastanza bene il tragitto verso il finale; un finale che mi piace racchiudere nelle quattro scarpe affiancate sul palco, che rappresentano tutti loro: un paio da donna, alte, un po’ volgari, la maschera; e un paio da uomo, vecchie, da risuolare, che forse maleodorano, ma che hanno camminato tanto. Il senso dell’empatia e dell’umanità, se ci pensiamo, consiste proprio nel mettersi nelle scarpe degli altri.