Liliana Fiorelli è un’attrice che si divide fra plurimi progetti in modo camaleontico, non prettamente indirizzabile in una sola tonalità interpretativa ed è questo che la rende artista a 360 gradi. La si può definire figlia di una creatività esponenziale e se l’energia non si crea e non si distrugge, la sua di certo si trasforma.
È cintura nera di imitazioni, caratterizzate da un tocco di acuta ironia. Spiccano negli anni le parodie dal sapore satirico di Virginia Raggi e Giorgia Meloni. Cogliendo l’innovatività della scena indie-pop ha personificato Levante ridandole vita in un’indomabile Ponente. Si è poi cimentata in Elettra Lamborghini e Georgina Rodriguez, personaggi con cui è sbarcata a “Quelli che il calcio”.
Ha avanzato passi coraggiosi nel restituire una delicata “consuetudinarietà” a tematiche di genere spesso lasciate ai margini di una superficiale disattenzione, vanificata invece dalla miniserie web “Prime donne”. Al cinema, ha preso parte a diversi film, nel 2020 “I Predatori” per la regia di Pietro Castellitto, vincitore del premio Miglior Sceneggiatura nella sezione Orizzonti a Venezia ’77. In tv è stata all’interno del cast di “Chiamami ancora amore” su Rai 1, assieme a Greta Scarano, Simone Liberati e Claudia Pandolfi.
Per non farsi mancare nulla, ha pubblicato il singolo musicale “Giorno Zero” in cui con parole preziose e un ukulele riaccende la calda scintilla che lega la semplicità alla felicità.
Non si sottrae dal mettersi sempre in gioco in nuove avventure, come nel recente spettacolo teatrale “Girl in the Machine” in coppia con Edoardo Purgatori, andato in scena al Teatro Belli di Roma.
Dopo una pandemia in cui la tecnologia ha smorzato la sofferenza, com’è stato interpretare Polly in “Girl in the Machine”, che invece con la virtualità ha un rapporto del tutto conflittuale?
Immergermi nel mondo di Polly è sicuramente stata un’immersione nel mondo delle paure. Durante la pandemia c’è sempre stato quel pericolo condiviso da me e da altri di arrivare a sostituire la realtà con la virtualità. Questo sentirsi completamente assorbiti nel tempo, nelle energie, nel piacere della tecnologia, è stato per me estremo e molto doloroso perché pensarla come un’esperienza vera è al tempo stesso distopia ma anche un pericolo a pochi passi da noi.
Al di là del teatro, ti porti dietro molte parodie di personaggi noti, nelle loro estremizzazioni fuoriescono dei tratti che appartengono un po’ alla tua personalità?
Assolutamente sì. È una sfera che ho messo in pausa semplicemente perché per ogni artista è buono ritrovare un aspetto creativo che dia sempre nuovi stimoli e in attesa di nuovi la lascio alle esperienze passate. Ho scoperto di entrare in contatto con un personaggio, soprattutto se realmente esistente, attraverso le proprie fragilità e debolezze. Mai giudicarlo dall’alto o dall’esterno, ma provare a dire: posso riconoscere le sue caratteristiche riconoscibili in me stessa? Da lì si può partire a farci una sorta di dialogo, così non diventa una vera e propria imitazione ma un’interpretazione di quella che ne è la personalità, assicurando lunga vita alla parodia stessa perché lo fai vivere come un personaggio di un cartoon. L’essere un po’ “veggente”, avere talmente la capacità di capirlo, prevedendolo anche a livello di attualità. Molto spesso magari succede qualcosa e il personaggio reale non ha ancora risposto, ma se si è fatto un buon lavoro si può quasi intuire come potrà reagire, lasciandolo vivere di vita propria. Ognuno ha il suo stile, ci sono stili molto più mimetici e aderenti alla realtà, che stimo, ma il mio approccio è questo.
In “Chiamami ancora amore” serie di Rai 1, eri Monica, l’amica di Anna. Chi sono le donne di spettacolo del passato con le quali ti sarebbe piaciuto fare amicizia o lavorare e perché?
Scelgo due attrici in nome di una diversità e una complementarità dell’amicizia di Monica e Anna; Mariangela Melato e Anna Magnani. Epoche leggermente lontane, energia recitativa e personale estremamente selvatica espressa in forme diverse l’una dall’altra. Un po’ delle regine di una regionalità italiana, la Melato più nordica e la Magnani più centrale. Sono sicura che, avendo la fortuna di lavorare con loro, vista la stima e la grande dignità che all’epoca hanno seminato molto bene, lasciandone ai posteri, avrei saputo rubare i dettagli della loro personalità sperando poi di diventarci amica.
Restando in tema, si parla spesso di donne, meno di Prime donne. Prime donne è anche un progetto web ideato da te che va a sradicare degli stereotipi sul femminile. La scelta di utilizzare l’ironia per toccare un tasto così dolente da dove nasce?
Tengo molto al progetto, antesignano per alcuni aspetti. Qualche anno fa abbiamo fatto un’autoproduzione che è stata una goccia nel mare rispetto ai formati di 15/20 minuti. Per il taglio Comedy erano tempi maturi, soprattutto per proporre finalmente dei personaggi femminili che fossero realmente protagonisti dell’azione scenica, questa era la missione. Ed è provocatorio dire che, non è il numero di ruoli ma la qualità del percorso di un personaggio, ciò che lo differisce dall’esser di servizio o in una sua rotondità. Ho sempre realizzato che numericamente i ruoli femminili esistono, non è che ci sono film con trecento maschi che corrono in una strada. A me piace interpretare i ruoli ben scritti, attraverso i quali, se ricchi e pieni di sfumature, si può veramente fare la differenza e diventare anche competitive e concorrenziali con un mondo che sta proponendo serialità e film, come “La persona peggiore del mondo” o l’annoverata “Fleabag” con delle protagoniste donne, universali e complesse, stupende. Non ti chiedi più se rappresentano qualcosa di femminile. Oggi ritroviamo realtà che fortunatamente riportano il formato breve con grandi risultati in “The end of the F***ing world”, l’italianissima di ZeroCalcare o “Ritoccati”, sitcom di cui sono felicissima di far parte, per la regia di Alessandro Guida, prodotta da Sky e acquisita da Netflix.
Lo scorso anno hai pubblicato un singolo musicale, “Giorno zero”. Descriveresti le anime destinatarie della canzone?
L’esperienza con il produttore Alessandro Forte, che credette fortemente nel singolo, è proprio bella e adesso vedremo quale sarà il suo futuro. È iniziata in un periodo particolare, post lockdown. La grande soddisfazione di questo percorso musicale è che ha creato tante connessioni in giro per il mondo in maniera completamente imprevedibile, inaspettata. La musica, come una sorta di Esperanto, ha una lingua universale al di là del fatto che uno capisca o non capisca le parole. I Maneskin ne sono una metafora giustissima. Mi son trovata ad avere a che fare con delle piccole realtà di ascoltatori in giro per il mondo attraverso la piattaforma di Spotify e… Wow. Solo la musica avrebbe potuto creare questo collante. Sono molto contenta anche perché il testo non si trova facilmente e mi è stato chiesto se potessi mandarlo personalmente, tradurlo, volevano ricantarlo. È una soddisfazione diversa da quella di far parte di un progetto più sostenuto.
Cosa fai quando ti accorgi che la creatività artistica sta bussando alla tua porta?
Io sono proprio una creativa esplosiva. Devo ringraziare l’inventore di queste due cose: le note sull’iPhone e i memo vocali. Di guizzo ho delle intuizioni, se perdo quell’intuizione è persa per sempre. Ho il block notes con la matita sul comodino, la mattina appena mi sveglio e ho l’intuizione devo appuntarla. Fino a che non c’è questa miccia devo giocare sulla velocità e quindi appuntarmi i primi concetti, anche molto grezzi. Spesso rendo bene la sera, con una bella tisana alla liquirizia!
Il tuo nome “Liliana” in latino significa “giglio”, fiore a sei petali. Per ognuno di essi nomina un qualcosa che non può mancare nella vita di una persona e attrice felice (riprendendo la tua biografia di Instagram)
Non posso fare a meno degli animali, soprattutto randagi. Mi è rimasto il mio splendido gattino, Salvia. Spero di avere ancora la possibilità di diffondere questa felicità.
Una cosa per cui vado pazza ed ho anche una collezione, i profumi.
I fiori, e sono fortunatissima perché sotto casa ho un fioraio, ogni tanto quando passo mi fa: “I soliti due Lilium?”.
Una famiglia con cui rielaborare un rapporto dopo l’adolescenza, quando si inizia a parlare con i propri genitori da adulti lavoratori.
Una persona accanto, un uomo o una donna che mi possa sostenere con dignità anche nei momenti di difficoltà, quando non gira giusto. Nella qualità delle persone, amore o amici, ho riscoperto la dignità. Coloro che ti ricordano chi sei sono fondamentali.
Tanto divertimento, le risate, perché sono comunque una scema, mi piace ballare con la spazzola in mano (ride).
L’insegnamento più bello che questo mestiere ti ha regalato fino a oggi?
È un lavoro che alla fine di ogni esperienza ti rende diverso da come eri prima, e non sempre è così, anche in molti altri lavori ci sono dei periodi di sperimentazione e poi una ripetizione di quella che è un’abilità o una tecnica. Ho imparato questo lavoro lavorando, in maniera quasi artigianale, operaia. Ho imparato e imparo a capire quello che è il mio gusto. Mi piace molto sperimentare, anche l’esperienza a teatro è stata una sperimentazione, devi capire dove ti porta, ed è un grande regalo.
E ciò che ti mette duramente alla prova?
Ciò che ti mette alla prova come essere umano, per una mia personalità a volte amante di leadership, è l’avere un senso di fiducia nei confronti di chi protegge, scrive e custodisce il tuo personaggio. Tu, da un punto di vista, sei l’elemento fondamentale di uno spettacolo, di un film o di una serie ma anche l’ultimo tassello di quella che è l’immensa squadra. A volte il fatto di avere delle suggestioni o di non poter modificare delle cose stimola la pazienza.
In riserbo per il futuro c’è qualche anticipazione professionale che puoi svelare?
Volentieri, ormai è uscita la notizia, sono nel cast del remake italiano di This is us, “Noi”. Sono molto contenta perché l’ho amato da spettatrice, è bello, bellissimo. Poi ci saranno altri due progetti cinematografici con tante novità.
La foto di copertina è di Luca Onnis.