È uscito da pochi giorni il bel libro fotografico Gente mia di Gianfranco Jannuzzo per Medinova Editore.
Gianfranco, che il grande pubblico conosce come bravissimo attore, è parimenti un fotografo eccezionale. Chi lo conosce bene sa che non si muove senza la sua macchina fotografica, un po’ come Toquinho con la sua chitarra. A volte, persino a teatro, poco prima dell’inizio dello spettacolo, si può notare un obiettivo che sbuca dal sipario chiuso e che fotografa il pubblico. È un curioso, un osservatore, un artista, e, oggi, ha finalmente raccolto una parte delle sue tantissime fotografie per farne un libro. Sono foto che raccontano la gente siciliana, la sua gente, per l’appunto; foto che rappresentano un cammino di anni.
Gente mia racconta la sua Sicilia. Non quella delle cartoline, ma quella che vive; e nella vita si fondono passato e presente, perché noi tutti siamo alberi con le gambe e peschiamo la linfa dell’esistenza attraverso radici invisibili che non si lasciano intimorire dalla distanza fisica e continuano ad affondare dove sono nate. A 12 anni si è trasferito a Roma con la sua famiglia, ma l’amore viscerale per la sua terra lo ha forgiato nel profondo. «Puoi allontanarti dalla tua Città … è la tua Città che non si allontana da te» recita nel suo spettacolo Girgenti, amore mio, citando Angelo Callipo. La sua sicilianità brilla e commuove; ed è in quell’ubertoso campo isolano di caratteri e sentimenti che sono cresciute la sua generosità e la sua spontaneità, la sua ospitalità e la sua umiltà, l’umiltà dei grandi, come dico sempre. Anche a Roma, la loro casa «era aperta a tutti. Sempre figli di Pepè e Liliana eravamo!». In questa frase c’è Gianfranco e c’è la bella Sicilia tutta intera.
Gianfranco ha studiato e approfondito i dialetti italiani, la gestualità regionale, i modi di dire; uno studio iniziato nel Laboratorio di Proietti e mai finito. Tuttavia non è mero mestiere, il suo; lo si percepisce ogni volta che i dialetti entrano in una sua pièce, poiché la sua capacità d’analisi disvela l’anima che li sottende, le parole che si annidano dietro le parole, ed accarezza la diversità come l’unica vera forza dell’uomo. È il segreto dell’armonia, se ci pensiamo: solo note diverse danno vita alla musica, solo parole diverse generano poesia, solo sfumature diverse compongono un dipinto.
Nelle pagine che precedono le fotografie, Gianfranco, con uno stile accattivante e nitido, racconta e si racconta, rintracciando la sicilianità negli atteggiamenti, nelle parole, nella cultura variegata di una regione che ha visto greci, arabi, latini, normanni … Nella gente siciliana ci sono mille genti. La differenza accomuna, viene da dire, e chi dovesse individuare incoerenza in questa frase, vada nella bella Sicilia e viva le mille vite e le mille origini che, in armonia, abitano gli occhi e i sorrisi delle persone.
Ecco, occhi e sorrisi. Su questo voglio soffermarmi, perché Gente mia è un libro fotografico e, come scrive Gianfranco, «la fotografia è poesia»; poesia delle immagini, sì.
Laszlo Moholy Nagy, famoso pittore e fotografo del Bauhaus ungherese, disse: «Il livello qualitativo in campo fotografico non deve essere valutato semplicemente in base a criteri di estetica fotografica, bensì in base alla carica umana e sociale della rappresentazione» e le fotografie di Gianfranco, particolarmente curate sotto il profilo artistico, hanno il valore aggiunto di una carica umana profonda.
Nel linguaggio fotografico esistono termini che racchiudono tecnicismi, ma la tecnica è solo una parte delle fotografie, come giustamente afferma Laszlo. E, dal momento che le foto di Gianfranco non sono solo tecnicamente ineccepibili, ma hanno qualcosa in più, la mia recensione sarà scandita da termini tecnici interpretati emotivamente.
Bianco e nero
La pellicola in bianco e nero ha le sue caratteristiche: si lavora sulla luce e sul buio, sulle ombre, sui toni e i mezzi toni; è una pellicola che consente una maggiore incisività. Il bianco e nero, però, è anche un concetto filosofico, un’isola magica ove si incontrano gli opposti, e Gianfranco è avvezzo a cogliere gli opposti come si colgono i quadrifogli, con l’attenzione per la rarità e la bellezza.
Nelle sue fotografie, il paesaggio, le strade, le persone esistono al di là delle leggi del Tempo, in un nitore ricco di chiaroscuri esistenziali ancor prima che figurativi; il suo occhio di fotografo si fa medium tra realtà e rappresentazione, facendo ingresso delicato nella vita altrui e cogliendone il senso unico di cui è foriera, la sua configurazione auratica.
Le foto di Gianfranco non sono mai banali: passa da inquadrature che possiedono punti di fuga visivi capaci di catturare l’osservatore all’interno della foto, a volti che si raccontano senza veli artificiali, com’è l’inutile anelito alla perfezione. Gianfranco trova e trasmette l’unica vera perfezione, ossia l’imperfezione: la ciocca di capelli mossa dal vento, i sacchetti della spesa pesanti, il gioco scomposto dei bambini, il divenire di parole dette durante lo scatto, il panino addentato da un fanciullo e le mani rugose che stringono un bastone: alfa e omega.
È questo che distingue il fotografo dall’artista: l’occhio per il canone della vita, per la posizione dell’esistenza. Respirano, le persone che Gianfranco ritrae; sorridono e vivono in un qui e ora perenne.
Profondità di campo
In fotografia la profondità di campo indica la porzione di spazio messa a fuoco tra soggetto e sfondo, ma in Gianfranco è molto di più, perché nel suo mondo fotografico esiste anche la profondità di campo emotiva. Lui fotografa persone e cose nella loro essenza; temporalizza il Tempo. Dall’astrazione scende al concreto, alla vita vissuta. In queste foto si sentono odori e si odono echi di voci e di nenie familiari. C’è tutto il suo teatro: l’immagine che prende vita, la cogenza dei valori, una configurazione spaziale dinamica.
Nelle fotografie di Gianfranco sono celati codici che riguardano l’arte e l’uomo, inseriti entrambi in un complesso plastico vivo, pulsante. Non c’è nulla di ieratico; c’è la definizione della scultura, ma c’è anche lo scorrere del sangue nelle vene. Ognuno dei soggetti fotografati, siano essi persone o cose, è dotato di presente e di passato. L’intensità dei ricordi si affaccia in ogni chiaroscuro e rappresenta l’immanenza della vita.
Non troviamo la posa del ritratto pittorico degli Alinari, bensì la spontaneità, la vita che esce allo scoperto, che buca il velo del visibile e si fa presente di fronte a chi guarda.
Messa a fuoco e definizione
La potenza rappresentativa e la dialettica delle immagini di Gianfranco vanno oltre la nitidezza, che pur ottiene sempre, padroneggiando stile e tecnica. Gianfranco suscita l’interesse per il particolare, inteso come espressione pura degli oggetti e delle persone. Il suo occhio teatrale coglie la vita, genera spaccati istantanei di esistenze. Nelle sue foto non c’è distanza: l’obiettivo è nel soggetto così come nel paesaggio. Lui fotografa il mondo da dentro il mondo, creando un equilibrato confronto, quasi raffaellita, tra spazio, oggetti e figure.
Sensibilità
In fotografia la sensibilità è la capacità della pellicola di reagire alla luce. Ma come posso soffermarmi solo sull’ottima scelta riguardo alla pellicola usata o ai tempi di esposizione? La sensibilità, nelle foto di Gianfranco, va oltre la mera reazione alla luce e risiede nella capacità di vedere ciò che gli altri non vedono, donando all’osservatore una parte di mondo sconosciuta e pur presente.
Racconta ciò che sente. Singolarizza le identità, le mette in dialogo intimo con l’osservatore, per dirla con Beyaert.
Nei volti che ritrae, in quegli sguardi, nei sorrisi e nelle malinconie c’è comunione e c’è contagio polisensoriale con il fruitore del messaggio artistico. Attraverso il suo obiettivo c’è diffusione identitaria. E questo mi fa pensare al racconto. Le sue foto racchiudono tante di quelle storie che ti fa venire voglia di scrivere e a scriverle tutte non basterebbero tre vite.
A pagina 106, ad esempio, c’è un venditore di fichi d’India. Si percepisce il caldo e il senso dell’attesa, in quell’immagine, attesa di un cliente, di una vendita o forse solo della fine di quella giornata; si odono i pensieri che riposano nella sua testa e che lo seguono ogni giorno, pesanti più del suo cesto di frutti, frutti dolci e spinosi come la vita. Si sentono in lontananza pigri passi ticchettare su quel pavimento verso impegni e svaghi, verso altri mondi. Perché non si avvicina nessuno? Perché la città sembra non accorgersi di quella quieta e solitaria dimensione contadina della vita? Cosa stiamo diventando? Questa foto è un racconto e un monito al contempo: in questo mondo feroce dove Avere ha soffocato Essere, quest’uomo È e ognuno di noi ha un pezzo d’anima che gli assomiglia.
E che dire del gatto di pag. 88? Immerso in una solitudine apparente, osserva il mondo invisibile che lo circonda. Le vibrisse raccolgono le onde del movimento. Lui basta a se stesso. Distratto da una formica o da una lucertola, salterà presto verso le avventure che lo circondano. E canterà alla luna, così come, nel sole, si sta riposando. Le linee focali dell’immagine conducono tutte a lui. La foto non è quella di una strada con un gatto ma di un gatto con una strada intorno, e il silenzio non è silenzio, ma fruscio, miagolio, vitalità in perenne divenire, che cammina su quei sampietrini con morbidezza felina.
Le foto dei bambini sono tante e tutte così emozionanti da lasciare senza fiato: senti il loro vociare, il piacere nei giochi; senti l’energia del rincorrersi e la potenza dei sorrisi con cui affrontano la vita; senti la rivoluzione dei pensieri che si accavallano e si moltiplicano, conoscendo, capendo, imparando. Imparano sempre, i bambini. E semplificano. Nelle fotografie dei bambini Gianfranco è riuscito a riprodurre la semplicità della vita, perché la vita, la complichiamo noi adulti. Poi ci sono le donne: madri, figlie, sorelle; donne in compagnia d’altre donne e donne sole, regine di case che le seguono, come un carapace disegnato dal destino: un pezzo di finestra, un filo di panni stesi, una cucina, una sedia accanto al portone. La donna siciliana incarna la casa ed è la forza e la bellezza della vita.
Anche i luoghi parlano, in queste foto, raccontano mestieri e misteri, come le scale che salgono verso qualcosa, verso qualcuno o, forse, dentro noi stessi, o il rumore di un’automobile attutito dai vetri chiusi di una finestra, una finestra che sa di casa, di focolare, di protezione.
Difficile scegliere una foto tra tutte queste meraviglie, ma una ce n’è che mi ha rapito il cuore. Pagina 61. È l’immagine di un uomo anziano, che cammina appoggiato al suo bastone su una strada deserta. La parabola della vita. La sua voce sembra l’eco di tante voci che mi sono fermata ad ascoltare nel tempo. Il volto si indovina nell’ombra, ma è un volto che tutti abbiamo visto almeno una volta nella vita, un volto con tanti nomi, sorgente di viaggi e di naufragi, di rapsodie emozionali nascoste nella notte. In quella luce bianca che bagna la strada e nelle ombre che abbracciano i muri, lui cammina curvo. Si dice che siano gli anni a pesare, ad incurvire, ma non è vero. Sono i sentimenti, le persone amate, quelle perdute; e pesano le parole che hanno raccontato gioie e dolori. Alla fine della vita siamo forzieri di emozioni; le emozioni ci piegano ma ci fanno ricchi. Quest’uomo mi dà la sensazione nitida della futilità dei calendari, degli appuntamenti, delle scadenze. La vita è altrove; è nelle scelte, nei contatti umani, nelle carezze sulla testa di un neonato; è nel gioco, nella curiosità, nella bellezza; è nei ricordi. La vita risiede nel prima e nel dopo: prima è tutto possibile, dopo è tutto già stato, ma le possibilità, le scelte non fatte, le rinunce e le conquiste non le dimentichiamo mai. Il silenzio di quest’uomo è loquace e parla di cose vicine e lontane, sciolte nelle lunghe ombre del crepuscolo.
Click
È il rumore dello scatto. Quando c’è Gianfranco c’è sempre un click. Gli amici sono nel suo cuore e anche nel suo obiettivo. A volte ti verrebbe da dirgli «Gianfranco sono struccata e piena di difetti; ho dimenticato di indossare gli orecchini. Aspetta che mi sistemo prima di fotografarmi», ma poi ti fermi perché sai bene che lui non sta fotografando un volto struccato, non sta fotografando l’assenza degli orecchini, lui sta fotografando la tua anima e non puoi che emozionarti per un simile privilegio.
Le fotografie di Gianfranco Jannuzzo sono opere d’arte e questo libro è un viaggio che merita di essere vissuto; un viaggio tra la gente vera, alla scoperta delle loro parole e dei loro pensieri chiusi in click.