Intervista a Lorenzo Merico, regista esordiente di “Fuga Bianca”

Il mio incontro con Lorenzo Merico è stato fortuito, ma, come spesso accade, è proprio grazie a certe insolite catene di conoscenze, che si riescono a fare gli incontri più interessanti. Di questa intervista, come della chiacchierata di quella afosa serata romana, c’è un aspetto che mi piacerebbe sottolineare, assai sopito in questo mondo sempre più grigio, che contraddistingue l’arte del nostro paese. La nostra preoccupazione economica ha fagocitato la speranza.

E non semplicemente a parole, perché a dispetto di ciò che postiamo in bella vista sulle nostre vetrine sociali, sono rimasti veramente in pochi a non sorprendersi – o persino a infastidirsi – davanti all’entusiasmo genuino e, se vogliamo, spudorato di chi aspira a essere artista. Lorenzo e io siamo della stessa generazione, certo, ma qualcosa di molto profondo ci separa: è Roma, la maestra del sospetto.

A dispetto della formazione romana, presso l’Accademia di Belle Arti, l’aridità del nostro ambiente non sembra aver affievolito i suoi sogni – espressione ormai caduta in disuso nella ristretta cerchia dell’arte, ma di cui possiamo ancora ‘sopportare’ l’esistenza. Tuttavia, l’aspetto più emblematico del mio incontro con il giovane Merico è un altro: mentre parliamo non appare nessun bigliettino da visita o invito, nemmeno una interminabile narrazione in merito alla genesi della sua arte è menzionata nel suo discorso, nessuna richiesta di amicizia su Facebook la mattina seguente, e così a rimanere è, semplicemente, la gioia di aver realizzato un film, con tanto di produttore!

Lorenzo Merico, classe ’97, è un regista, performer, artista visivo e scrittore originario del sud della Puglia, dove inizia la sua formazione per poi continuare gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Roma. Successivamente si trasferisce in Olanda e termina gli studi all’Accademia d’Arte Visiva Minerva, a Groningen. Il lungometraggio “Fuga Bianca” è attualmente disponibile in formato digitale e DVD sul suo sito.

Raccontaci della tua esperienza in Accademia di Belle Arti a Roma e del tuo rapporto con quest’istituzione, ma, soprattutto, di quali siano gli aspetti ineludibili per la formazione di un artista.

Questa è una domanda molto piccante al momento, perché proprio di recente ho preso la ‘malsana’ decisione di iscrivermi in magistrale all’Accademia di Belle Arti di Roma. La mia esperienza è stata molto diversificata, perché tanto è dipeso dalle interazioni createsi con le diverse personalità che ho incontrato. Mentre alcuni docenti mi hanno stimolato e trasmesso moltissimo, da altri mi sono sentito fortemente limitato, e questo perché le prospettive che si possono trovare all’interno dell’Accademia sono sempre molto variegate. Molto è probabilmente dipeso dal modo in cui ho affrontato questo percorso, cercando di trarre tanta ispirazione dall’ambiente circostante, lasciandomi stimolare da quello che c’era a disposizione. Per tanti altri è stato, magari, un percorso più universitario, ma non professionalizzante: la maggior parte dei miei colleghi si iscrivono con l’idea di prendere una laurea o un titolo, senza però mettersi mai veramente alla prova. Per me è stato un bel momento in cui decidere di mettermi in gioco e sperimentare, con tutti i pro e i contro di un’istituzione italiana.

Che peso ha avuto nella tua formazione l’esperienza all’estero, conseguita durante il percorso in Accademia?

È stata per me decisiva. Non ho mai vissuto male l’Accademia, l’ho sempre frequentata con grande piacere e anche per quanto riguarda le esperienze negative, quest’ultime mi sono arrivate quasi sempre in maniera indiretta, attraverso il modo in cui lo vivevano gli altri. Alcuni erano legati in maniera davvero eccessiva all’insegnamento dei docenti. Capita spesso che i professori cerchino di portarti nei loro universi, senza lasciarti mai libero di creare. Al contrario, ho sempre cercato, in qualche modo, di ritagliarmi il mio spazio attraverso quello che facevo, mentre altri si affidavano ciecamente al percorso non riuscendo poi ad arrivare ad alcun risultato personale. In questo senso, l’esperienza in Olanda mi ha aiutato tantissimo, perché ho scoperto un nuovo modo di concepire l’arte: è stato lì che ho iniziato veramente a capire quale fosse la mia poetica, perché avevo intorno una serie di professori che erano veramente dei mentori, che si interessavano a noi profondamente come artisti e non semplicemente come studenti.

Quali sono le tendenze attualmente impiegate nella comunicazione sui social (soprattutto tra gli under 30), destinate a durare e influenzare sempre di più il linguaggio cinematografico?

I social hanno aperto le porte dell’arte a tutti, rendendola sempre più accessibile e democratica, in uno scambio continuo tra arte cinematografica e vita di tutti i giorni. Grazie a questi strumenti tutti hanno potuto iniziare a prendere parte a questo tipo di narrazione, scatenando tutta una serie di nuove sperimentazioni e generi. Questa non è altro che un esempio della fusione tra arte e vita, approccio che io stesso coltivo nelle mie opere, verso un tipo di linguaggio che appartiene sia al quotidiano sia a un immaginario totalmente astratto, come può essere quello cinematografico. Penso che i social stiano facendo la differenza sulla velocità di fruizione dei contenuti, a essere cambiato è il tempo in cui si costruisce la storia.

In che modo hai gestito l’ingombrante aspetto finanziario nella realizzazione del tuo lungometraggio?

Mi sono ‘buttato’ nell’impresa titanica di “Fuga Bianca” senza nessun tipo di capitale, ero determinato a realizzare questo progetto e, quindi, mi sono detto: “Troverò i fondi mentre mi concentro sulla creazione”. Non volevo che la mancanza di denaro fosse un freno, ma che la creazione continuasse a prescindere. Quindi, mi sono lanciato in questa avventura contando solo sulle mie disponibilità e aprendo un crowdfunding, per permettere alle persone che si interessavano al progetto di finanziarci. È stato raggiunto poco, abbiamo raccolto circa cinquecento euro, che hanno permesso soltanto di far partire il progetto e di iniziare la realizzazione di questo lavoro, nonché di comprare un microfono, per registrare con una certa professionalità. A un certo punto, mentre mi rendevo conto che il lavoro stava iniziando a prendere veramente piede e che le persone aumentavano all’interno del progetto, un imprenditore, nonché padre di una delle attrici, ha iniziato a interessarsi al lavoro.

L’entrata in scena di un produttore, all’interno di un film indipendente, ha avuto ripercussioni sul lavoro?

Gli attori sono stati selezionati proprio dalla strada, con un approccio molto simile al cinema neorealista. I personaggi nel film sono un calco dei caratteri di chi li interpreta, hanno una personalità molto simile nella loro vita, ed è stato, forse, questo uno degli aspetti più affascinati del film, ovvero quello di inserire il loro vissuto all’interno della storia. Prima di trovare il nostro produttore, Marco Simonelli – che ringrazio davvero di cuore per aver creduto così tanto nel nostro progetto – avevo contattato una casa di produzione pugliese, ma in quel caso il budget e il coinvolgimento non erano sufficienti. Una settimana dopo il coinvolgimento di Marco Simonelli siamo diventati una cinquantina all’interno del cast, tra attori e tecnici coinvolti. Questa è stata per me una prova di come il semplice fatto di credere ciecamente in un’idea, faccia sì che anche gli altri intorno a te inizino a crederci sempre di più.

Elemento ricorrente nel film è l’invito a riflettere su come l’irrazionalità guidi le nostre in scelte in un moto oscillatorio e non lineare. In che modo questa consapevolezza ha influenzato la tua idea di regia?

“Fuga bianca” è nato in un momento di forte transizione, in cui sentivo il bisogno viscerale di scrivere una storia di getto, senza preoccuparmi troppo di dove potesse condurmi. E, infatti, “Fuga Bianca” è un po’ questo: sono tante storie che si intrecciano in silenzio in una grande narrazione, in cui solo alla fine si diventa consci di quale sia la connessione tra tutte queste sotto-trame. Non mi piace pensare che ci sia un protagonista all’interno, perché lo vedo come un lavoro decisamente corale, come un insieme di essenze che si incrociano in vari momenti e creano questo movimento oscillatorio.

L’idea dietro al film è quella di narrare dei momenti di vita, la cui intensità ha fatto nascere in me l’esigenza di una conciliazione tra vecchio e nuovo, in una nuova espressione. La prima stesura, scritta tre anni fa, è cambiata moltissimo, anche durante le riprese. Mi rendevo conto che il cambiamento stava avvenendo, in primis, dentro di me e, allo stesso modo, tanti pezzi della mia realtà si stavano trasformando, pertanto desideravo che anche il film ne uscisse arricchito in tal senso. Per questo, fino all’ultimo giorno di riprese, ci sono state scene completamente stravolte, ma è solo grazie a questa scelta che sono riuscito a conferire un’atmosfera autenticamente onirica e aleatoria al film.

Ma cosa c’è veramente al cuore di questo progetto per te così intimo, nonché d’esordio?

Il significato profondo di “Fuga Bianca” sta, per me, in tutti quei momenti che, nella nostra vita, viviamo con velocità, mentre essi hanno al loro interno tutta una magia che, soltanto riuscendo ad allontanarci dalla razionalità, riusciamo a vedere. Tutta una serie di colori, odori e sfumature che ci hanno attraversato nell’arco della nostra vita e che ora stanno insieme, in un quadro totale che, magari, è frammentato e non è razionale, come una qualsiasi astrazione artistica, ma che mantiene comunque al suo interno quel contatto con la realtà, attraverso quella che è l’esperienza dello spettatore. Quindi, un lavoro che cambia a seconda degli occhi che lo vedono, un lavoro che possa restituire emozioni diverse, a seconda di chi lo guarda. Il contenuto del film è l’espressione del mio bagaglio di vita, ma chiunque lo veda può ricollegare quei momenti e colori ad altri frammenti del proprio vissuto personale.

E, in effetti, il tema della visione, anche nella sua accezione negativa – ovvero di ciò che non semplicemente possiamo delegare al senso della vista – rappresenta l’altro grande filo conduttore. Che ruolo giocano per lo spettatore le sfumature sonore accanto a una fotografia in continua evoluzione?

Ho immaginato il film come un’esperienza sensoriale a tutto tondo. Il background di tutti i lavori che cerco di realizzare è l’abbattimento della ‘maschera’, ma non semplicemente in senso individuale, bensì nella sua accezione sociale, ovvero di tutta quella serie di finzioni e di inganni che si innescano tra le persone. La mia idea è che attraverso l’arte ci si possa incontrare di nuovo e in maniera autentica, ritrovandosi in una forma diversa, guardandosi secondo una prospettiva ulteriore. Il senso ultimo dell’arte è, dunque, la possibilità di intravedere una via di fuga dalla vita che viviamo tutti i giorni, eccessivamente scandita dalla routine e dalla gabbia sociale che ci siamo costruiti. È proprio davanti a un quadro, come avviene in “Fuga Bianca”, che ci mettiamo a nudo, spogliandoci di tutte quelle finzioni e, finalmente, lì ci possiamo incontrare per la prima volta.

Progetti per il futuro?

La mia testa in questo momento è un subbuglio di idee, ci sono tantissimi progetti a cui vorrei lavorare, motivo per cui ho cercato di dare una coerenza a tutti questi impulsi, anche in base a quelle che sono le possibilità attuali. Nell’immediato ho in mente di lavorare, a partire da ottobre-novembre, a un nuovo lungometraggio, che dovrei girare in coproduzione con l’Olanda, facendo le riprese lì. Invece, come progetto a lungo termine sto pensando a una trilogia di cortometraggi, incentrati sul concetto di inganno sociale. Questo progetto, attualmente in fase di scrittura, vorrei avesse una forte radice sociale al suo interno, ed è per questo che sarà lanciato insieme all’apertura sul mio sito web di un blog.

Quest’ultimo si chiamerà “Backup of humanity” e prevederà un tipo particolare di interazione virtuale, attraverso un globo terrestre, in cui gli utenti potranno inserire, da vari luoghi del pianeta, dei materiali, che riguardino strettamente le loro vite. Potranno essere caricate e condivise delle parole, delle immagini o qualsiasi altro contenuto che appartenga alle loro esistenze, in modo da aprire una discussione su di esse. A Vilnius e in Polonia sono state già create delle installazioni pubbliche basate su questo stesso principio, che permettono di guardarsi dall’altra parte del globo. Sono riuscito a entrare in contatto con questi artisti e loro si sono dimostrati molto disponibili a collaborare.