di Andrea Cavazzini
Un Maestro non muore mai veramente, al massimo, passa a un diverso livello di coscienza. Tra le innumerevoli cose che si possono dire sulla morte di Franco Battiato, musicista, sperimentatore, pioniere della musica elettronica, autore pop, regista, pittore, appassionato di spiritualità e filosofia orientale. Il compositore siciliano (non cantautore, per favore) aveva 76 anni e da qualche tempo, a causa di una grave malattia che aveva compromesso il suo sistema nervoso, si era ritirato da tempo nella sua casa di Milo, dove è morto.
La sua assenza, durata cinque anni e intervallata dall’uscita di Torneremo ancora nel 2019, un disco in un certo senso già postumo che ci aveva abituato all’idea che prima o poi lo avrebbe fatto. Scomparire. Sarebbe partito senza andarsene davvero, questo grande amante dei paradossi che è sempre stato.
Nato nel marzo 1945, mentre il mondo stava uscendo dalla guerra, in Sicilia si rese subito conto di essere cittadino del mondo e, a metà degli anni Sessanta, si trasferì prima a Roma e poi a Milano, dove tentò l’avventura come cantante melodico e chitarrista beat, culminata nella partecipazione alla trasmissione televisiva “Diamoci del tu”, condotta da Caterina Caselli e Giorgio Gaber che diventò suo amico suggerendogli di cambiare il suo nome da Francesco a Franco perché suonava meglio e con il quale scrisse E allora dai per il Festival di Sanremo del 1967.
A Milano, si avventurò in due mondi completamente nuovi: la musica colta contemporanea, in particolare quella di Karl Heinz Stockhausen, e la meditazione trascendentale. L’impatto, sulla sua anima curiosa, fu devastante e Battiato, in mezzo alle contestazioni sessantottine e nel pieno degli anni di piombo, si evolse prima sulla scia del progressive, come cantante degli Osage Tribe, poi come solista, in senso minimalista. Pubblica per l’etichetta Cramps la stessa degli Area, e i testi sono scritti da Sergio Albergoni, e l’audacia è la sua parola d’ordine: quindi album concettuali come Fœtus e la Pollution, dove l’elettronica e il pop regnano sovrani.
Frank Zappa in segno di ammirazione gli regalò delle scarpe con le ali gialle e su un biglietto scrisse. “Mi piacerebbe fare quello che fai tu”.
Anni di progresso e sperimentazione ma questo interesse per la filosofia costantemente presente nella sua musica, non ha mai impedito a Franco Battiato di produrre successi da discoteca, o di avventurarsi sul fronte del varietà più commerciale: il festival di Sanremo o l’Eurovisione.
Ha prodotto musica che non può essere classificata in un genere, ha firmato album di stili molti diversi; dalla musica pop a periodi di rock contemporaneo e d’avanguardia, senza mai tralasciare le influenze letterarie e meditative a lui care, flirtando con la musica etnica e l’opera lirica. E poi la proficua collaborazione con il virtuoso violinista Giusto Pio, arrangiatore di album come L’era del cinghiale bianco, La voce del padrone, e co-compositore di I treni di Touzer che Battiato cantò in duetto con Alice all’Eurovision del 1984. Nei anni ’90 inizia una stretta collaborazione con il filosofo Manlio Sgalambro, autore del libretto per la sua terza opera, Il cavaliere dell’Intelletto, che sarà rappresentata in prima assoluta nella Cattedrale di Palermo.
Battiato è stato una di quelle personalità artistiche generose fin troppo rare dedite a un ideale di talento, e le mille sfaccettature dell’uomo sono da scoprire senza moderazione. La sua musica è paradisiaca, ma non priva di forza, è unica nel suo genere, allo stesso tempo leggera e piena di energia.
Da queste altezze si può solo scendere, ma Battiato che nel frattempo torna a vivere in Sicilia, non scende mai veramente, e lo testimoniano album come l’Arca di Noè (1982) e Orizzonti perduti (1983), così come Fisognomica (1988), contenente la perla E ti vengo a cercare. Al culmine del suo successo, ha invertito lo schema che lo aveva portato al successo: non più testi alti su arrangiamenti pop, ma testi pop su arrangiamenti alti. Così nel 1991 nasce Come un cammello in una grondaia, premiato come miglior album dell’anno, dove reinterpreta le romanze di Brahams e Wagner, ma soprattutto fotografa l’Italia di Tangentopoli con Pover Patria, il manifesto della cattiva politica, che tutto il fronte costituzionale italiano al pari dei “desideri mitici delle prostitute libiche” ha cercato di intestarsi.