Giancarlo Sepe è un regista casertano, fondatore a Roma nel 1972 del Teatro La Comunità, nei cui spazi ha svolto gran parte della sua attività teatrale. I suoi spettacoli hanno fatto la storia del teatro, in particolare si ricordano “Zio Vanja”, “Accademia Ackermann”, “In Albis”, “Casa di bambola”, “Salomè”, “Vienna”, “Iliade”, “Cine H”, “Favole di Oscar Wilde”, “Barry Lyndon”, “Washington Square”, “Germania Anni ‘20” e “Werther a Broadway”.
L’allestimento di “The Dubliners” nasce dalla collaborazione con il teatro Eliseo, a cui seguirà la tragica fine della direzione artistica di Monaci. Lei è in prima linea in queste vicende, attraverso il suo lavoro artistico, ma soprattutto esponendosi politicamente. Un messaggio forte di non allineamento e di reazione alle decisioni prese dall’alto, è questo il segnale che ha voluto dare con il nuovo allestimento proposto al Teatro della Pergola a ottobre?
Vivo la chiusura dei teatri in profonda solitudine, non avendo alle spalle nessuno, né dal punto di vista politico, né da quello amicale. Tuttavia, ho ricevuto grande sostegno da parte del Teatro della Pergola, in particolare nella figura di Marco Giorgetti. Ovviamente, in questo momento, La Comunità non è chiusa per scelta, ma per obbligo. Abbiamo in programma già diversi spettacoli, tra cui la ripresa di “Favole” di Oscar Wilde, in occasione del cinquantenario della Comunità, che si terrà l’anno prossimo e che rappresenta un grande anniversario, visto che il nostro è l’unico teatro della scuola romana degli anni ’70 a essere sopravvissuto.
Ho lottato tutta la vita per tenere in piedi La Comunità, a costo di sacrifici, ma anche ottenendone grandi soddisfazioni, per questo vivo male la situazione. Sono abituato a lavorare, ho prodotto nella mia vita centoquattro spettacoli, sono una persona che non si ferma mai e, adesso, stando a casa, studio e lavoro su progetti che già avevo in cantiere mentalmente e che ora metto su carta.
La questione di cui bisognerebbe parlare maggiormente è in che considerazione tengano la cultura i nostri politici. In maniera molto equivoca, quest’ultimi sostengono che la cultura è ciò di cui tutti hanno bisogno, in realtà non hanno mai mostrato un’attenzione reale ai nostri problemi, anzi ci hanno ritenuti come delle persone superflue. Ho scritto più volte, anche sui social, che bisognerebbe riaprire i teatri, perché in nessun luogo si è più attenti alla sanificazione, agli ingressi e alle distanze.
Il teatro è un sostegno, prima di tutto, per chi lo fa, per centinaia di migliaia di persone, il cui indotto annuo è notevole, mentre le motivazioni a sostegno della chiusura appaiono blande e liquidatorie. L’assembramento è nei supermercati, sui trasporti, nei bar e ristoranti. Ci fu una gaffe del passato governo, in cui si disse che si dovevano evitare, con la chiusura dei teatri, assembramenti sui trasporti. Il pubblico teatrale medio a Roma si aggira intorno alle ventimila persone, ma dubito nella maniera più assoluta che, in una sola sera, si muovano masse così ingenti per andare a teatro. Osservazioni di questo tipo fanno sorridere per l’incapacità di capire che, al pari dei bar e dei ristoranti, tutti abbiamo bisogno di qualcosa che ci faccia vivere, ma non si può relegare il teatro alla sfera del superfluo.
Un’altra posizione ipocrita è quella che recita “prima la scuola”, senza sapere che la scuola è quel luogo in cui si recano ogni giorno otto milioni di persone, creando un caos incredibile. Leggendo le ultime notizie sui contagi, si evince come i maggiori focolai siano proprio nelle scuole, tanto è vero che la media d’età dei contagiati si è abbassata di molto. Mi fa rabbia quest’ipocrisia, perché si tratta di affermazioni finte e demagogiche, che ci aspettiamo già dai politici. Ancor prima di prevenire la malattia dell’alunno/a, si sarebbe dovuto ragionare affinché fosse curato l’insegnamento. Le nuove generazioninon vanno più a teatro, né si interessano alla lettura, i loro interessi sono mediamente legati alla socialità, agli aperitivi, alle cene, alle feste e ai viaggi.
Penso che il teatro abbia bisogno di un’attenzione maggiore, volta a far comprendere, fin dalle scuole, che il teatro, come la musica, sono elementi importanti nella vita di ogni essere umano. Senza teatro o musica non si va avanti, perché a venir meno in questo modo è la cultura della trasmissione, del racconto, dell’ascolto, né c’è filosofia o storia, non c’è colore, arte, plasticità, sfondo, non c’è nulla! Ognuno con il proprio parere deve far sentire il dolore della mancanza del teatro.
Ci parli anche della sua proposta di un comitato in favore della riapertura per mano non degli operatori, bensì degli/lle spettatori/rici.
La sorpresa più grande è stata per me vedere il pubblico, cosiddetto affezionato, molto più lontano dal teatro di quanto immaginassi. Durante questo anno, nemmeno in un post, il pubblico, unitosi, ha detto: “Ridateci il teatro”. Nulla di tutto ciò, come se il pubblico si fosse subito uniformato alle direttive, per paura di rimetterci la pelle, senza comprendere che ciò è già accaduto, senza che se ne accorgessero.
Se quanto avvenuto oggi, fosse capitato negli anni ‘70, durante la protesta giovanile, le ideologie del tempo – che pure erano invasive e mal propugnate – avevano creato un’esigenza culturale, che avrebbe impedito che la situazione degenerasse in questo modo. Fin dagli anni ’80 non c’è più stata una maggioranza che combattesse per produrre e fruire della cultura, si è verificata, invece, una disgregazione del pubblico e del teatro, che ha preso corpo a partire dalla diffusione della televisione (per cui ormai si va a teatro per vedere il divo televisivo).
Il decimo anniversario dalla morte di Pina Bausch ci ricorda che il gesto del mettere in scena non coincide affatto con quello del descrivere. In questo periodo molti artisti/e si sono premurati/e di avvertire che del Covid non si parlerà, sorge, tuttavia, il dubbio che non siano molti gli artisti e le artiste in circolazione capaci di raccontare senza descrivere, competenti nel mettere davvero in atto il dispositivo dell’analogia, in un ripensamento della morte, che ormai si rende quotidianamente necessario.
Esiste una battuta meravigliosa di Beckett, che recita così: “La fine è nel principio, eppure si continua”. Una volta venuti al mondo siamo già morti e perciò, tutto quello che poi si fa, è solo al fine di intrattenersi, in attesa che la morte sopraggiunga. Siamo in mano a una realtà, che è la maggioranza, che ci ignora per paura, siamo nella condizione di dover rendere conto a degli ignoranti, per cui parlare di Covid mi pare impossibile. Non vorrei che d’ora in poi ci fossero spettacoli con le mascherine, sarebbe davvero un danno incredibile, come creare un futuro distopico, senza capire che noi viviamo già in piena distopia. Ci dicono che dobbiamo convivere con il virus, ma potrà il virus contaminare Osvaldo di “Spettri” o Trigorin de “Il gabbiano”? No! L’unico modo per far capire che i tempi sono cambiati è offrire una proposta teatrale più forte e innovativa, conferendo maggiore spazio ai sentimenti e allo ‘stomaco’. Si deve cogliere quest’occasione, come dopo ogni guerra o malattia, è necessario guardare in faccia la realtà, perché è proprio dopo questi momenti negativi che sono nati i migliori movimenti alternativi, come dopo la Prima o la Seconda Guerra Mondiale.
Prima degli anni ’80 chi voleva fare teatro, ed erano per lo più giovani, lo faceva e basta, senza dover chiedere niente a nessuno. Certo, la stragrande maggioranza di quelle persone sono sparite o si sono fatte assorbire da una realtà diversa, ma è rimasto un dieci percento superstite dagli anni ’70 che ha fatto scalpore. I grandi attori facevano la fila, anche a La Comunità, per vedere questi spettacoli, perché i loro apparivano al confronto sbiaditi, inefficaci, ottocenteschi. Non parliamo perché abbiamo un pubblico impreparato e se lo facessimo in modo realistico non saremmo credibili, mentre in senso eufemistico non saremmo seguibili, perché a prevalere è la paura, la stessa paura – ed è qui che mi dispero – che non esce fuori quando, in centomila, si riversano in via del Corso.
I cartelloni dei grandi teatri hanno voltato le spalle alle innovazioni, anche quelle più consolidate, si torna al teatro borghese, ci si trincera nei classici, non sperimentando più e condannando chi fa ricerca alla marginalità. Su cosa si fondano queste dinamiche di potere?
Penso si tratti di una carenza di persone, non bisogna dimenticare che il teatro è fatto di personalità. Se prima il pubblico si chiedeva chi fosse il regista – non che io desideri la supremazia della regia, perché penso che ci sia un grande patto tra regista e attore – ora tutto ciò è venuto meno, proprio grazie all’avvento della televisione commerciale, dove tutto è crollato, causando la mercificazione e l’abbassamento dei valori.
A noi basta, parafrasando Pina Bausch, mettere insieme movimento e parola – e non parola qualunque! -, ma una parola importante. Le contaminazioni sono il futuro del teatro. Sant’Agostino diceva che “Chi canta prega due volte”, da non osservante interpreto questa citazione così: prego due volte nel senso che mi avvicino all’oggetto del mio desiderio. Negli ultimi dieci o dodici spettacoli, ho chiesto agli attori di cantare e questa scelta mi ha condotto a una grande libertà di ideazione.
Devo ammettere di non essere uno spettatore teatrale assiduo, ma mi è capitato di assistere spesso a spettacoli, in cui gli schemi comunicativi erano didascalici e ridondanti. Per ogni azione quotidiana deve esistere un equivalente scenico e comunicativo – e da questo punto di vista Pina Bausch ci insegna moltissimo – che parta dalla domanda: “Che cosa senti in un abbraccio? Che cosa senti in un bacio? Cosa c’è dietro una caduta?”. C’è l’ascolto, la visione, ma soprattutto la volontà di affabulare il prossimo e di non lasciarlo schiavo delle parole, laddove siano dette male, come spesso accade. Il compito del regista è offrire la propria di idea di affabulazione, a partire da un testo, affinché ciascuno metta in scena la sua storia. Per quanto mi riguarda, non sono certo uno di quelli che si preparano per non avere sorprese, anzi, al contrario, preferisco continuare a riceverne continuamente!