Intervista a Marco Zordan, direttore del Teatro Trastevere.

A partire dal 6 febbraio l’inedito trio composto da Gianluca Mastronardi, Giuseppe Mortelliti e Marco Zordan, ha dato vita al Teatro Trastevere al reading musicale “Teatro all’uscio” che – strutturato sull’alternanza tra canzone e tono scanzonato- propone uno sguardo diverso sulla situazione pandemica attuale, quello di un’ironia poetica in grado di colmare i vuoti e denunciare i luoghi comuni.

Un tentativo di colmare i vuoti, un esercizio di disperazione, nel vostro reading musicale vi trovate in un limbo, in un luogo a metà tra lo spazio teatrale e ciò che c’è fuori: perché nasce “Teatro all’uscio?

Alla fine è nata un po’ così, dalla barriera che si forma nel contrasto tra la tua voglia di fare e l’impossibilità delle persone di guardarti. Così come il teatro in questo momento storico è messo all’uscio, in maniera un po’ provocatoria ci siamo messi all’uscio, andando a rappresentare, per chi passava, una sorta di vetrina animata. Se quando questa esperienza ha avuto inizio il periodo del Natale era di per sé portatore di una componente emotiva, il 6 febbraio con “Cosa ci manca ediscion” abbiamo riprodotto quest’esperienza in modo più specifico, pensando ad una sorta di farmacia, di speziale, che potesse in qualche modo colmare il vuoto del periodo immediatamente precedente e restituisse il più possibile un senso di vicinanza.

Si trattava di una cosa semplice nata dal legame tra pezzi nostri e cose che conoscevamo: la sua forza si esprimeva anche nel tentativo di riportare le cose dentro agli spazi della cultura. Sappiamo di non poterlo fare del tutto, eppure, soprattutto i teatri indipendenti, non si basano sul solo spettacolo ma hanno bisogno di creare attraverso di esso un senso di comunità, di sperimentare forme altre. Per i passanti imbattersi in noi rappresentava una boccata d’aria, come quando girovaghi per le strade di una città che non conosci bene e non sai come andrà o dove andrai a finire. Il nostro essere artisti diventa così un atto comunicativo entro il quale la presenza è decisiva. Gradualmente infatti lo spettacolo dal vivo dalla prosa si sta trasformando in presenza: questa è la sola cosa che lo rende unico, quella componente che nessuno spettacolo in streaming potrà mai reiterare. Essendo noi ormai abituati all’interattività, non trovarla a teatro porterebbe a trovarsi spiazzati: questa dinamica si riporta allora nel teatro di strada, la rottura delle sovrastrutture, la capacità di rendere partecipi di un gioco di cui tutti hanno bisogno e che viene realizzato arrivando al limite, rendendosi consapevoli di un ostacolo e tentando in ogni modo per superarlo.

“La poesia a volte viene a sanare tante cose” – così avete presentato l’iniziativa degli origami di poesia. Di cosa si tratta? In che modo la poesia riesce a guarire?

La poesia restituisce benessere e bellezza, cura nelle cose, permettendoti un approccio migliore a ciò che devi affrontare: i nostri origami erano una serie di scatoline con dentro le poesie, una sorta di poesia da asporto, si trattava di un concetto molto semplice ma fondamentale tant’è che molte altre iniziative in passato sono state articolate in questa direzione, basti pensare a Pronto soccorso poesia. In questo momento ci si sente inutili come artisti, non si può fare niente, eppure si ha la consapevolezza del proprio ruolo, della possibilità che si possa in qualche modo continuare a far emozionare la gente. Nel momento in cui ti arrendi ti senti perso, allora ti chiedi: a che cosa può servire quello che fai? La risposta sta forse in una silloge su cui ragiono sempre; in questo momento l’arte deve essere fatta per etica e per epica, non per estetica. Puntare sull’estetica, senza concepire ciò che ti succede intorno, ti porta a perdere. Devi innanzitutto rompere il ghiaccio, sapere che stai parlando a qualcuno che in quel momento non sta al meglio di sé, saper entrare nelle situazioni. La poesia è ciò che con più facilità riesce a farlo, è il segno tangibile di una vicinanza, lo strumento che permette il distacco dalla paranoia che ti circonda. Un po’ è questo il tentativo dell’arte, quello di prendere la realtà, di restituirtela in un’altra maniera, e in questo modo interpretarla.

 Un guitalele, una chitarra, un ukulele: tra suono e voce vi siete proposti di ribaltare i luoghi comuni che attraversano la pandemia attuale suscitando a volte fraintendimenti: Quali i più significativi?

Nella mia generazione c’è un grande tabù che è la sconfitta, il saper dire “ho perso”. Nessuno è in grado di dirlo. In questo periodo, avendo come unico riscontro del mondo quello proposto dai social, ci si trova di fronte a persone che dimostrano e ostentano il loro star bene, il loro avercela fatta. Ciò che viene veicolato spesso non è vero, porta erroneamente a pensare che la condizione di lockdown rappresenti per l’individuo una svolta; ci chiediamo allora: come viene raccontata questa storia? A seconda di come guardi le cose, queste possono essere intese in maniera diversa, per fare un esempio il Titanic potrebbe essere visto come la più grande storia di salvataggio mai esistita! Il luogo comune si diffonde a causa della tendenza di non voler raccontare tutto, impedisce di porsi d fronte agli altri in maniera autentica, diviene l’unico mezzo attraverso il quale sembra possibile avere un incontro, sentirsi parte di qualcosa. È importante invece saper dire ciò che tutti hanno pensato ma che nessuno osava dire. Teatro all’uscio diventa mezzo di ambivalenza artistica in cui fai finta di parlare con la telecamera ma in realtà comunichi con gli altri e veramente qualcosa può accadere. Si tratta di una struttura aperta in cui la porta– come diceva Eduardo- rimane aperta al caso. Una comunicazione basata su un tacito accordo, un patto in cui diviene implicito il fatto che nonostante tutto, questo non è teatro in senso lato, ma qualcos’altro.

Ad un certo punto ti riferisci in modo ironico ad un momento del tuo passato, quello che ti ha portato a scegliere il teatro di fronte alla possibilità di fare l’imprenditore di mascherine. Ad oggi cosa sceglieresti?

Fare teatro, se non si è grandi mecenati, è una cosa già di per sé poco remunerativa: se avessi voluto fare l’imprenditore non avrei fatto questo. Il teatro è innanzitutto un mestiere, il suo modello di business deve essere la sostenibilità, la sua finalità, quella di diventare una sorta di oasi, che soddisfi la reciproca necessità dell’incontro. Iniziai a fare teatro in occasione di un campo estivo in Trentino che prevedeva alla fine un piccolo spettacolo: si trattava di una circostanza semplice eppure osservare le persone che ridevano, vederle coinvolte, mi ha restituito qualcosa. Trovarsi con tante persone, nello stesso momento, a riflettere sulla stessa cosa rimanda al senso a cui tutti i social hanno tentato di fornire un surrogato, quello di un atto vero e autentico di condivisione.

Nel corso del reading, più volte fai riferimento alle opere di Trilussa come nel caso della lettura de “Il caffè del progresso”: cosa si troverebbe a dire il poeta romano se fosse ancora vivo nella Roma del Covid?

Senza dubbio Trilussa sarebbe oggi sarcastico e sferzante, si concentrerebbe su chi tende a cantarla in un modo quando le cose stanno diversamente, su chi si lamenta ma in realtà ha il gargarozzo, su chi promette cose finte, accordi e amicizie. Il poeta si opporrebbe ai meccanismi di inerzia della società messi in contraddizione di fronte a ogni cambiamento. Trilussa direbbe le cose così come sono.

Ad un certo punto ti trovi a raccontare un sogno, quello di una bizzarra passeggiata tra le vie di Trastevere. Qual è il suo significato? Come si sviluppa in questo senso la collaborazione con i ragazzi de “Il Ventriloquo” di Trastevere?

Un teatro è un luogo fisico che deve essere legato a un territorio: a noi manca una comunità di riferimento. Sulla base di un progetto un po’ sarcastico fatto con i ragazzi del Ventriloquo, abbiamo riflettuto sulla tendenza di chi, nei dintorni, ti vuole vendere cibo a tutti costi: tutto questo ci fa interrogare su quale sia la reale esperienza che vogliamo, su quale siano i reali bisogni di questo quartiere. Noi vogliamo raccontare la sua storia, il senso di romanità, di veracità che gli appartiene. Vogliamo restituire l’idea di un contesto popolare, rivivificarlo, dargli la possibilità di sperimentare qualcosa che non lo lasci uguale a sé stesso, che non lo faccia vivere come ricordo di quello che c’è stato ma come realtà presente. Questo permette al nostro pubblico di affezionarsi, di trovare un punto di riferimento. Sono, i ragazzi del Ventriloquo, ragazzi di Trastevere che operano quotidianamente proprio su questo, sul tentativo di opporsi al modello di sfruttamento del quartiere da questo punto di vista. Esistono infatti milioni di studi su come il centro della città possa essere sfruttato in maniera diversa: lo sperimentiamo perché soffriamo del fatto che una comunità reale qui non c’è. È necessario scoprire la vera città, restituirne l’esperienza. Noi puntiamo anche su questo.