In occasione del “Giorno della memoria” ripercorriamo brevemente la storia di un teatro passato, capace di confrontarsi e narrare l’orrore più indicibile della nostra civiltà.
Il “Giorno della memoria” è una ricorrenza che ci riguarda da vicino. Non si tratta, semplicemente, di una giornata tra le altre, da porre accanto alle varie ricorrenze legate ai temi più disparati, che occupano ogni giorno le bacheche dei social. È il giorno in cui l’Occidente ricorda, si condanna e risorge, lava via macbethianamente una colpa che non è possibile cancellare. Naturalmente, moltissime sono state e ci auspichiamo continuino a essere le espressioni artistiche, legate alla Shoah (ad esempio, per questo articolo si è scelto “I tuoi capelli d’oro, Margarethe” del pittore Anselm Kiefer). I cittadini e le cittadine di tutta Europa ‘inciampano’ quotidianamente in una memoria, che tende troppo spesso a scivolare via.
La ferita mortale che ha colpito il cuore stesso dell’Europa è narrata dall’arte, mediante il silenzio. Quest’ultimo insieme alla memoria, rappresenta quella svolta epocale che spiana una strada nuova alla parola poetica. Paul Celan è forse il poeta che meglio di tutti ha saputo conservare, racchiudere e cullare silenzio e memoria, all’interno della sua poesia asciutta, misteriosa e ineffabile, capace di avvitare insieme la sensualità più dirompente e la simbologia tradizionale ebraica più antica ed erudita.
Infiniti sono stati i dibattiti, nati dalla celebre querelle tra Celan e Theodor W. Adorno, sulla necessità del silenzio effettivo e non metaforico dell’arte, a cui il filosofo tedesco inneggiava, silenzio su cui, tuttavia, in qualche modo, si è dovuto ricredere, proprio attraverso il teatro.
La pandemia sarà dimenticata presto, già oggi il grande nemico del nostro tempo, che giusto qualche mese fa ci obbligava al confinamento forzato, è divenuto un fantasma. Risultano nauseanti gli slogan rassicuratori prodotti durante il lockdown, vuoti e privi di creatività gli appelli pietistici si manifestano in tutta la loro incoerenza mediatica. Servono soluzioni politiche, è vero, ma in Italia ancora una volta il dibattito scade in ménage di potere fuori moda e di cattivo gusto. E noi che ancora crediamo nel valore ideologico e democratico dell’arte, noi che ci illudiamo ancora che le sorti del teatro italiano non siano così disastrose come appaiono, noi che ci stringiamo attorno alla protesta in favore della riapertura dei teatri, noi siamo i custodi di questa memoria.
L’opera teatrale capace di far ricredere persino il critico più severo è “Finale di Partita” di Samuel Beckett. Ben oltre la tradizionale interpretazione, che vorrebbe ridurre questa pièce a una assurda partita di scacchi, la storia qui narrata (come, senza pari, ci viene spiegato proprio da Adorno, nel celebre “Tentativo di capire Finale di Partita”) è legata a “La violenza dell’indicibile [che] viene ritrattata dal timore di parlarne: Beckett – dice Adorno –mantiene tale indicibilità nebulosa. È possibile parlare di una cosa che oltrepassa ogni possibilità di esperienza solo in termini eufemistici, come si parla in Germania dell’assassinio degli ebrei”.
I pensatori e le pensatrici più celebri del secolo scorso ci hanno insegnato che, una volta entrato nella storia, l’orrore può tornare a ripetersi: è rimessa a tutte e tutti noi la responsabilità di mettere a tacere ogni narcisismo, per farci autori di una storia collettiva e comunitaria che, di giorno in giorno, si fa sempre più inarrivabile. Il teatro può e deve essere una soluzione a ciò, ma non dobbiamo cedere alla tentazione di non ribellarci, anche qualora scegliessimo di farlo mediante il silenzio, non possiamo cadere nel tranello dei social e delegare a questi la nostra protesta o, peggio ancora, la nostra identità.
La drammaturgia novecentesca, ovvero quella che, forse più di tutte, insieme alle tragedie antiche e alle opere shakespeariane, amiamo vedere rappresentata è stata prodotta a partire dalla ferita della guerra, dalla più disperata ricerca di senso nel non senso dell’Olocausto.
In apertura al testo di Adorno, riconosciamo un nome familiare: Peter Szondi. Autore de “La teoria del dramma moderno” nel 1956 – appena una decina d’anni dopo la liberazione dal campo di Bergen-Belsen – Szondi ricostruisce nella sua opera la matrice di incomunicabilità, propria della drammaturgia dell’Otto-Novecento, che si scontra con l’essenza più intima di questa disciplina: il dialogo.
La necessità di reazione di fronte all’orrore ha cambiato in profondità il volto del teatro, modificandolo fin nel nucleo fondamentalmente della sua struttura e cancellando l’assoluta preminenza del dialogo. Naturalmente, come i grandi studiosi ci hanno insegnato, il teatro epico di Brecht è assolutamente ineludibile in questo senso. Eppure, il primato non è solo inglese o tedesco, è anche italiano.
L’autore che, all’interno del panorama del teatro epico (e ben oltre le sue scelte politiche), meglio incarna il sentimento di impotenza e, al contempo, di fuoriuscita dall’incomunicabilità è Pirandello. Se da una parte la necessità di progredire nella narrazione risulta ineludibile, in quanto carattere proprio del dramma, quest’ultimo è tuttavia fissato nella sua impotenza esistenziale, attraverso le figure dei “Sei personaggi in cerca d’autore” la cui storia non può più essere messa in scena. Il messaggio è rimesso al fruitore, gli è consegnato con grande efficacia e chiarezza, scevro di qualsiasi oscurità psicologica.
Si suppone spesso che dietro alla memoria ci sia un sentimento inutilmente nostalgico o pericolosamente reazionario. La memoria non è niente di tutto ciò, è solo il potere che noi abbiamo di accogliere l’altro: è moderazione. Quest’ultima è per il teatro l’unica chance rimasta per sopravvivere.