di Marco Belocchi *
Circa cento anni fa nella Germania repubblicana post bellica, quella che fu chiamata Repubblica di Weimar, si concentrò una proliferazione artistica che investì l’arte figurativa, l’architettura, il cinema, che diede capolavori assoluti da Nosferatu a Metropolis, da Il gabinetto del dr. Caligari a Lulu, e il teatro, non solo nella figura di Brecht, Piscator e altri, ma anche nei più malfamati Tingeltangel di Monaco di Baviera, così si chiamavamo questi locali fumosi e impregnati di grasso di salsiccia e zaffate di birra. In uno di questi agiva un certo Karl Valentin, alto allampanato buffo, un clown metafisico come scrisse qualcuno, che recitava i suoi testi (scene, monologhi, atti unici) con i suoi attori sulle tavole dei kabarett. Alcuni di questi testi sono stati pubblicati in Italia da Adelphi nel 1980 (ma ancora reperibile in commercio), in un agile volumetto dal titolo rievocativo di “Tingeltangel”. Ebbene tra questi scritti umoristici, paradossali, “assurdi”, quasi di un dadaismo ironico, ce n’è uno che si intitola appunto Il Teatro dell’obbligo. È un breve monologo che io inserii diversi anni fa in qualche spettacolo di intrattenimento, ma che ogni tanto mi torna alla memoria e ora mi bussa insistentemente nel cervello, quasi a voler avere di nuovo udienza, a voler tornare di nuovo d’attualità: “Sono qui – mi dice – rileggimi, e vedrai che qualche idea ti verrà!”
Certamente anche allora, in quella Germania degli anni venti, oberata dai debiti di guerra, da un’inflazione inimmaginabile, e che sarebbe poi crollata qualche anno più tardi di fronte al dilagare del nazional socialismo, il teatro doveva avere la stessa carenza di spettatori che abbiamo oggi e che ora, di fronte al disastro che ha travolto il paese (non apro parentesi polemiche sulle responsabilità, mi limito a prenderne atto) e che l’industria culturale pagherà a carissimo prezzo per i prossimi anni, la questione del pubblico si dovrà porre in maniera drastica. Come faremo a recuperare tutte quelle persone che negli anni abbiamo faticosamente convinto a seguirci con spettacoli divertenti, intelligenti, leggibili a più livelli, mettendoci tutti i nostri sforzi, la nostra professionalità e non ultime la nostra passione e la nostra arte? Forse Karl Valentin, con la sua irriverente ironia, ci suggerisce una soluzione. Il suo monologo comincia così: “Come mai i teatri sono vuoti? Solo perché il pubblico non ci va. La colpa è tutta dello stato. Perché non si istituisce il teatro dell’obbligo? Se ognuno sarà costretto ad andare a teatro, le cose cambierebbero immediatamente”. E così prosegue con una logica stringente fino a ipotizzare una sinistra organizzazione chiamata UFTO (Universale Frequenza Teatrale Obbligatoria) che costringa il pubblico a frequentare quotidianamente i teatri come un dovere, per il bene economico e culturale della nazione.
Ora, in effetti, se si prendesse in considerazione questa modesta proposta e si applicasse davvero una frequenza obbligatoria dei teatri, non dico quotidiana, ma quanto meno mensile, ciò risolverebbe assai bene il problema della carenza di pubblico. Pensate: una città come Roma, di oltre tre milioni di abitanti, tolti i bambini troppo piccoli, i malati cronici, i troppo anziani e qualche altra categoria che può essere esentata, rimarrebbero almeno due milioni di possibili spettatori. Le sale nella città di Roma sono circa un centinaio, se ipotizziamo una capienza media di trecento posti si arriverebbe a coprire circa trentamila posti al giorno che moltiplicato per 26 (bisognerà pur concedere agli attori almeno un giorno di riposo settimanale, come previsto dal contratto nazionale!) si arriverebbe alla fantastica cifra di 780.000 posti, ovvero non si riuscirebbe nemmeno a soddisfare il fabbisogno mensile! Si dovrebbero quindi aprire altri teatri, espropriare tutte le sale parrocchiali disponibili, che a Roma sappiamo essere moltissime, e anche se i prezzi dei biglietti si portassero a prezzi più che popolari, in un solo anno gli incassi sarebbero talmente esorbitanti che potremmo assistere ad una vera rinascita culturale e, ciò non guasterebbe, finalmente concedere una giusta paga a tutti i lavoratori dello spettacolo, vessati da anni di fame e ristrettezze! Poi, col tempo, una volta abituati, non ci sarà neanche più bisogno di obbligare nessuno a frequentare i teatri, il pubblico, semplicemente, non ne potrà più fare meno, sarà felice di accalcarsi ai botteghini e applaudire i suoi eroi, che per un paio d’ore l’avrà fatto sognare, ridere, emozionare, piangere e perfino pensare.
Credo che, a ben riflettere, quest’obbligo sia ben più utile di altri obblighi recentemente prospettati da zelanti galoppini, perché questo sì che sarebbe un vero antidoto contro l’ignoranza, la depressione, l’inciviltà, riportando la cittadinanza ad una sanificazione di mente e di corpo di cui da tempo abbiamo perso memoria.
*Attore e regista