Che il teatro torni ad essere una comunità: riflessioni da dietro le quinte.

 di Sara Pallini *

Si è parlato molto durante il primo lockdown del nostro non essere stati considerati utili, del nostro non essere stati considerati affatto, non esistenti, non riconosciuti come enti da parte dello Stato. Un dibattito che è ancora in trincea con le istituzioni e non solo. La querelle rimane aperta anche fra i diretti interessati, in lotta fra essere o non essere appartenenti alla categoria di professionisti del mondo dello spettacolo. Non è di questo che intendo argomentare. Il punto è se considerarsi noi per primi semplicemente “utili”, soltanto un poco “di compagnia”, oppure piuttosto “persino necessari”.

Vengo da una famiglia di medici, ho scelto di fare l’attrice e ho sempre avuto poca familiarità con la digitalizzazione. Eppure è grazie a lei che ora scrivo, che tanti possono leggermi e che più che mai in questo momento, molti miei colleghi attori, nonostante le sale cinematografiche ed i teatri chiusi… “ci fanno compagnia”. Dai nuovi social e mass media, FACEBOOK, YOUTUBE, TIKTOK, TWITCH, AMAZON, NETFLIX e altro, alla ormai quasi trapassata televisione. Allora penso che anche noi siamo, non solo utili, ma necessari, come il cassiere che rischia ogni giorno in mascherina per strisciare la mia spesa o il fruttivendolo sotto casa che sta lì da 40 anni e chiamo maestro, e così il personale delle pulizie negli ospedali, oltre a tutti medici, infermieri e ricercatori che stimo immensamente poichè hanno una vera passione per il loro mestiere e non temono la responsabilità. Anche io come attrice ho delle “respons-abilità” e una forte passione che mi nutre, strutturata e irrazionale, ma se sbaglio qualcosa le conseguenze del mio operato sono certamente meno gravi.Non sto sminuendo il mestiere degli attori e di tutte le maestranze che cooperano alla realizzazione di uno spettacolo teatrale, alcune delle quali hanno anche a che fare con la messa in sicurezza degli spettacoli. Al contrario sto ricordando a tutti che non meno importante della salvaguardia degli artisti è la salvaguardia dell’arte stessa, poiché il nostro operare è una forma sia di nutrimento che di salute per lo spirito, ed in questo sta la nostra “abilità di rispondere”. Rispondere al bisogno di una società che sempre più rischia di perdere i capelli della vecchia comunione, della sepolta sotto tappeti di polvere condivisione faccia a faccia, o ancor meglio braccetto a braccetto, come lo erano i balli lenti nel dopoguerra o i più scalmanati rock ‘n roll con prese aeree di qualche anno anno dopo.

La civiltà dell’empatia di Jeremy Rifkin, lo stesso che scrisse in tempi non sospetti “L’era dell’accesso”, ci faceva augurare un’era in cui, davvero, attraverso l’empatia ed i social network, si poteva forse un giorno tornare al baratto, allo scambio non mercificato di opinioni, informazioni e persino di emozioni. Fu allora un visionario, pre-vide quello che oggi sta diventando una realtà capillare, dal grande centro cittadino al piccolo paesino, dalla periferia sub urbana ai quartieri della più alta e media borghesia. Tuttavia sempre più si rischia di far valere maggiormente il lato oscuro di questa nuova realtà, quello che, come accaduto durante il primo lockdown, da un iniziale afflato di pura condivisione, diventa poi una moda che anche non professionisti possono vestire e un surrogato della natura primigenia dello spettacolo dal vivo. Sappiamo tutti quanto sia difficile fare delle buone riprese di uno spettacolo di prosa, di un concerto o di un evento di danza all’interno di un teatro. Sappiamo che il più delle volte queste riprese vengono svolte in assenza di pubblico, ove possibile con delle luci da set affittate appositamente che non sono quelle del disegno luci ideato per lo spettacolo. E sappiamo che queste luci cinematografiche sono protagoniste assieme agli interpreti sul palco forse allo stesso modo. La dimensione del live di un evento teatrale è al contrario data dalla presenza del pubblico, altro protagonista dell’evento, ogni sera sguardo necessario all’essere ed esistere del performer sul palco.

Credo che certi interventi, pur lodevoli, di teatro in primo e primissimo piano, (strumenti parlanti primari del mezzo cinematografico) non siano di grande connessione e aderenza con l’essenza del teatro. Interventi che hanno tutto il sapore di un vorrei ma non posso, un voler essere cinema senza riuscirci, un voler resuscitare il teatro senza concedergli il suo corpo: quello del performer e quello del teatro stesso. Tutti sanno che l’etimologia del termine teatro deriva dal verbo greco Teaomai, che significa essere in vista, ma in vista da parte di chi? Dello spettatore certamente, ma anche del teatro stesso come “entità” e non solo come luogo fisico.Per questo motivo la famosa quarta parete è necessaria tanto allo sguardo dello spettatore quanto a quello dell’attore, e lo è sia quando rimane calata giù sia quando viene infranta, trafitta dallo sguardo di un attore che comunica con il pubblico. Trovo geniale il titolo che è stato scelto per questo giornale, “Quarta parete”, poiché in fondo tocca uno degli elementi centrali, se non l’elemento fondante tutta l’esperienza teatrale: lo sguardo, e la linea di demarcazione “fra” questo doppio sguardo, che si rende ora attivo ora passivo, attraverso il ping pong più o meno consapevole fra interpreti e spettatori. Credo in sostanza che tutta l’esperienza teatrale sia in quel “fra”.

La dimensione digitale ha in questo momento, a mio modesto parere, ragion d’essere solo per quelle operazioni di spettacolo live o di diretta televisiva, che sia un talk show home made, oppure la ripresa di un live di teatro (sia esso in forma di reading o di messa in scena vera e propria, quando lo spazio ospitante lo concede). Una dimensione digitale del teatro è in breve possibile solo se entrambi, tanto lo spettatore quanto l’attore-danzatore-cantante, si pongano in ascolto ed in vista “live” uno dell’altro e con essi sia presente anche “la stanza” che li ospita: questo piccolo-smisurato teatro in scatola che ne è il contenitore. Come far vivere di più questa stanza-fisica che ospita il performer e come far vivere di più la stanza-schermo che li contiene entrambi? La risposta è aperta a tutte le possibilità di ogni artista.Nel momento in cui egli comprende quanta libertà c’è in questa possibilità creativa, smette di resistere alle limitazioni imposte dal faticoso momento che stiamo vivendo ed incomincia ad essere. In breve smette di alimentare il non essere e inizia ad esistere. Poiché l’uomo, Sartre insegna, è ciò che fa: se ci si pensa attori, forse lo si è (e questo pensare sarebbe il credo di Cartesio, cogito ergo sum), se ci si vede attori, nel presente o nel futuro, si visualizza il proprio obbiettivo (insegna il Buddhismo), ma se lo si fa, giorno dopo giorno, anche quando non si può fare -per regime, per ragioni di sicurezza, per mancanza di risorse- allora probabilmente lo si è, attori.

Mi sono laureata sul teatro , forma antichissima di teatro tradizionale giapponese, affascinata da quanto di più ascoso e insondabile abita il cuore dell’uomo, il cosiddetto yûgen, misterioso incanto sottile. Scrivevo in un’epoca in cui tutto era già fuori, esposto, alla mercé, mercificato appunto e imbarbarito dalle lenti deformanti dei primi reality show in cerca di scoop, le prime factory di soli quindici anni fa, quando ho imparato ad accendere il computer e usare word per scrivere la mia tesi e mai avrei immaginato di vivere un giorno questa situazione pandemica mondiale, essendo proprio noi italiani fra i primi a sperimentarla in larga scala. Tantomeno avrei mai immaginato che un giorno sarei stata proprio io colei che incita alla ricerca di un nuovo mezzo espressivo teatrale attraverso i nuovi media ed i nuovi network, che pure di lenti deformanti si servono.Da un lato quel che più desidero è poter rientrare fisicamente dentro lo spazio reale di un teatro, e come interprete e come spettatrice, dall’altro lato credo anche che, se questa crisi ha generato molta frustrazione e blocco di endorfine nella grande maggioranza di noi tutti appartenenti al mondo dello spettacolo, tuttavia debba essere colta come un’opportunità, per cercare di creare un nuovo linguaggio che mantenga i principi cardine e le radici del vecchio, ma sia avvalorato dalle nuove possibilità che la tecnologia, pur fatta in casa o super cheap ci può offrire. Tutto questo non dovrebbe essere vissuto con spirito di profitto immediato, (nell’arte giapponese questa ricerca si dice moshutoku, senza spirito di profitto) nonostante l’interruzione del lavoro repentina e prolungata, con conseguente necessità di monetizzare che mette ogni giorno più alla prova.

*attrice