Come se già non fosse un giorno triste, il due novembre di questo maledetto anno ha salutato il suo enorme pubblico il grande maestro Gigi Proietti.
Il Mandrake di “Febbre da cavallo”, che non si è smentito salendo in cielo proprio lo stesso giorno del suo ottantesimo compleanno, lascerà un vuoto incolmabile su quelle travi orizzontali che sono state da sempre la sua casa. Considerato l’erede artistico di Ettore Petrolini, ma salito di qualche gradino più in alto, Gigi Proietti è stato un attore straordinario, un mattatore a teatro, un mago che dal suo unico baule era in grado di plasmare i personaggi più disparati che hanno segnato la memoria del suo pubblico e di tutti noi. Showman superbo, doppiatore magico come nel dar voce al famoso Genio della lampada e al duro, impacciato Sylvester Stallone in “Rocky 1”, Proietti è stato direttore e padre di un teatro, il Globe Theatre, che ha voluto fortemente per dare la possibilità ai giovani di amare questa arte che solo con esempi come il suo si può adorare.
Pochi artisti hanno avuto la peculiarità di riuscire a coniugare la cultura “aulica”, con quella più popolare, passando dai testi impegnati di Shakespeare, come “Coriolano”, ai più leggeri film di Vanzina, come ad esempio “Un’estate al mare”. Artista poliedrico, Proietti è riuscito ad ammaliare, far appassionare e innamorare nonni e bambini passando da “A me gli occhi please”, con l’interpretazione de “il vecchietto delle favole”, al successo di Rai Uno “Preferisco il Paradiso”, fino ad arrivare a “I sette re di Roma” in cui non solo veste i panni di tutti e sette i re ma anche di altri sei personaggi. Il pubblico si è poi affezionato al suo celebre personaggio in divisa: l’amatissimo “Maresciallo Rocca”, ruolo nel quale l’interprete ha saputo fare da specchio ai valori di un’Italia unita, giusta e solidale.
Con Proietti, portare i giovani a teatro non è stata una missione impossibile. Mentre da un lato, infatti, il grande artista ha scardinato gli stereotipi che volevano le platee affollate di canute e ingioiellate signore, dall’altro ha formato una generazione di grandi attori: quei giovani degli anni Settante e Ottanta che hanno goduto e respirato quella saggezza teatrale e umana, quel potere attoriale, e oggi si presentano al pubblico come garanzie. Flavio Insinna, Enrico Brignano, Massimo Wertmüller, Francesca Reggiani, Rodolfo Laganà, Pino Quartullo e molti altri.
Quest’ultimo, attore, doppiatore, regista, sceneggiatore, direttore artistico e insegnante, ha avuto il privilegio non solo di apprendere l’arte “proiettiana” di recitare e far ridere, ma di vivere Gigi Proietti anche nel privato. Ad alcuni giorni da questa perdita che ha colpito Roma e l’Italia tutta, Pino Quartullo racconta il pregevole rapporto con Gigi Proietti, in un’intervista sincera, emozionale e emozionante a Quarta Parete.
Il tuo primo incontro con Gigi, le sue parole e le tue emozioni.
Vidi Gigi per la prima volta nei camerini del teatro Tenda nel 1976 (ero studente di architettura) e non avevo mai visto una persona così sudata in vita mia. Era letteralmente zuppo. Quella camicia larga, bianca, un po’ “cyranesca”, gli aderiva totalmente addosso come una seconda pelle. Non sapevo che l’avrei rivista tante e tante volte quella camicia, condividendo con lui il palcoscenico, e anche molti studi televisivi.
Lui aveva 36 anni, io 19, gli dissi che avrei voluto fare l’attore. Nel 1979, quando si sparse la notizia che avrebbe aperto una scuola, nonostante mi mancassero ancora 5 esami per laurearmi in architettura, non volli perdermi l’opportunità di partecipare alle selezioni. Al provino portai una poesia su una bambina appena nata (in romanesco) che piangeva sempre (sua figlia Susanna era appena nata e sicuramente sarebbe stato sensibile sull’argomento). Poi cantai una canzone folkloristica della mia città natale “Civitavecchia bella città d’incanto”. Rise molto e negli anni a venire me la fece cantare in più occasioni (anche quando fui ospite con lui da Raffaella Carrà)
I provini si tenevano nel gigantesco cinema/teatro Araldo (nel quartiere Prenestino), lui stava sotto palco, in piedi, e si muoveva seguendoci, non solo con gli occhi, ci faceva domande divertenti per farci superare l’emozione; altri futuri insegnanti della scuola erano seduti dietro di lui: Annabella Cerliani, Sandro Merli, Flavia Tolnay, colonne portanti di quel “laboratorio di esercitazioni sceniche” diretto da Gigi, di cui ebbi il privilegio di far parte. E quello fu il primo dei laboratori, iniziato nell’autunno del 1979 e terminato nel 1982 (seguirono altri 4 laboratori fino all’inizio degli anni Novanta).
Il primo giorno del laboratorio, nella sala all’ultimo piano del teatro Brancaccio, adiacente al terrazzo (esattamente quarantuno anni fa), Gigi si sedette sulla pedana, che avremmo poi usato come palco, e si rivolse a noi subito come dei giovani colleghi. Noi eravamo emozionati, adoranti come davanti a un dio. Aveva 39 anni, noi appena ventenni. Per prima cosa ci spiegò l’importanza dello sbruffo del cavallo, che consisteva nel far vibrare una precisa parte del labbro superiore. Ognuno di noi si cimentò immediatamente. E lui ci scrutò con attenzione per capire come avremmo reagito, come avremmo saputo eseguire una richiesta così bizzarra (soprattutto me, che ero anche allievo di regia all’Accademia d’Arte Drammatica). Poi ci disse che anche le orecchie si potevano e si dovevano muovere (lui era un maestro anche in questo) e anche con le orecchie immediatamente ci cimentammo. Capimmo subito che ci saremmo divertiti molto, ma anche che nel divertimento nulla era casuale. Che far ridere era un lavoro serio e come un musicista deve allenarsi col proprio strumento, noi ci saremmo dovuti allenare con il nostro corpo, la nostra voce.
Tra le varie discipline del laboratorio c’era danza afro-cubana con Christine Dunham, mimica facciale con Mario Scaletta, movimento del corpo con Leda Lojodice (che aveva interpretato la bambola nel Casanova di Fellini), canto, solfeggio, drammaturgia-scrittura; oltreché numerose altre discipline.
Gigi sarebbe stato il nostro insegnante di recitazione, il regista delle nostre scene, dei nostri saggi. A quei tempi erano tutti molto curiosi di sapere cosa facevamo nel Laboratorio. Ci vennero a trovare molti registi amici di Gigi: Nanni Loy, Giancarlo Cobelli, Ugo Gregoretti, Cesare Zavattini, Antonello Falqui, con i quali studiavamo e cominciammo subito a lavorare.
Io proposi a Massimo Wertmuller di studiare seriamente una scena dal Giulio Cesare di Shakespeare, un dialogo tra Bruto e Cassio. Ci impegnammo molto, andavamo sul lungotevere per studiare e poter alzare la voce. Parallelamente al laboratorio però elaboravamo anche scenette esilaranti, escogitavamo espedienti per far ridere: io eseguivo Paperino al telefono, Massimo Wertmuller l’orso del luna park, con Laganà codificavamo varie tipologie di suoni gutturali, e altre facezie. E tra un Goldoni e un Cechov, mostravamo anche quelle cose buffe a Gigi. Lui un giorno ci convocò e mischiò quelle cose esilaranti alla scena di Bruto e Cassio, e ne uscì una miscela esplosiva, irresistibile. Come degli schizofrenici interrompevamo improvvisamente le battute di Shakespeare e passavamo dal drammatico al comico, con incursioni sconvenienti di Laganà e anche Romeo (che cercava Giulietta), a volte, appariva tra noi. Antonello Falqui vide quella pazza commistione ed entusiasticamente decise di aprire il varietà di Proietti “Attore amore mio” (RaiUno, prima serata) proprio con la nostra scena del Bruto e Cassio contaminata. Ed anzi, a fine scena, in tv, si aggiunse a noi Gigi, che saliva sulla sua famosissima cassa, e come Marcantonio si rivolgeva al popolo di Roma punteggiando la famosa orazione con degli americanissimi OK? Partiva poi una musica (eseguita da un’orchestra diretta dal grande Gianni Ferrio) e tutti insieme ce ne andavamo cantando e ballando. Quella scena del Giulio Cesare, Gigi la tenne per anni e anni nel suo repertorio, cambiando forme di contaminazione e trasformandola di volta in volta, fino a che i pepli dell’antica Roma divennero asciugamani della sauna del povero Toto. Ebbene sì Toto discende da quella nostra scena di Bruto e Cassio. Tra i registi che passarono a via Teulada mentre registravamo il varietà con Gigi, un giorno capitò anche Mario Monicelli che mi scelse per un ruolo nel Marchese del Grillo. E così in quei giorni, mentre registravamo il varietà con Falqui, debuttai anche nel cinema recitando a fianco di Alberto Sordi. Il laboratorio fu un detonatore straordinario di tante cose. Nelle prossime risposte sarò più breve, giuro.
Quanto c’è di Proietti in Quartullo attore e uomo?
Credo che Gigi scegliesse gli allievi per la loro personalità. Ognuno di noi era già un po’ personaggio. E nessuno di noi allievi del laboratorio si è mai sognato di imitarlo. Come un grande maestro, Gigi sapeva valorizzare la personalità e anche i difetti/caratteristiche di ognuno di noi. E ci faceva capire come il “non essere attori omologati” fosse fondamentale. I cosiddetti in gergo “attori corretti” che dicono la battuta “forte e chiaro” non erano contemplabili nel suo laboratorio. Finti mai. Ognuno doveva coniugare sé stesso nei personaggi, variando, cercando strade non ovvie, non facili.
Durante la registrazione del varietà televisivo “Attore amore mio” mi disse che, secondo lui, “il mio clown” era un ragazzo piacente ed aitante che non manteneva le promesse, meno forte di quello che sembrava, che nascondeva gracilità e insicurezze. E in quel varietà, dopo essermi esibito come un Bruto culturista, a sorpresa mi faceva tirare fuori una grande margherita con l’espressione di Cucciolo (quello dei sette nani) e il pubblico esplodeva in una risata/applauso. E su quello lavorai, poi in seguito, in tanti film e commedie, sulla declinazione di me stesso in chiave di commedia: in “Piccoli equivoci” di Ricky Tognazzi, nel “Secondo Ponzio Pilato” di Magni, nei miei film commedie “Quando eravamo repressi”, “Le donne non vogliono più”, “Storie d’amore con i crampi” ecc. mi sono sempre preso in giro. Molta autoironia. Anche perché essendo stato molto grasso fino ai 21 anni, non mi sono mai veramente sentito bello ma buffo. Il senso del comico è abbastanza innato ma la consapevolezza tecnica, l’ho appresa matematicamente da Gigi. Far ridere è una scienza esatta, animalesca ma precisa, e grazie a lui, ho capito come e perché far ridere. Trucchi di vario tipo, l’importanza di una pausa, alternanza di ritmo e lentezze. Musica. Il parlato è musica e la voce umana è lo strumento musicale più ricco di possibilità. E la voce di Gigi era assolutamente la più straordinaria voce che abbia mai conosciuto.
Cosa sarebbe stato uno spettacolo “Proietti – Quartullo” con la maturità attoriale di oggi?
Il mio sogno è stato per anni di portare sulle scene con lui un testo di Schmidt. Un testo con due soli attori. Due uomini che hanno amato la stessa donna. Uno scrittore di grande successo che accetta l’intervista di un giornalista di provincia. Gigi sarebbe stato fantastico. Avrebbe giocato sia sul versante commedia che drammatico. Ma Gigi nei suoi spettacoli era protagonista assoluto. E quindi è rimasto un sogno. Avevo anche scritto un soggetto per raccontare con un film la vera storia di Toto (l’uomo che si è liqueso nella saùna), un film con molti personaggi interpretati da tutti noi ex allievi del laboratorio, in stile anni Cinquanta in bianco e nero, ma anche quello è rimasto un sogno.
Se quello è rimasto un sogno, nella realtà hai condiviso tanto il palco con Gigi.
Ho condiviso tantissimo il palco con Gigi. Mi ha diretto tante volte. Sono stato protagonista di tre suoi spettacoli magnifici: “Dramma della gelosia”, “Stregata dalla Luna” e “Quella del piano di sopra” (sei anni di tournée e tutti andati in scena al Brancaccio). Quindi ho provato tante volte la meravigliosa esperienza di stare con Proietti su un palco.
Perché l’arte di Gigi Proietti coinvolge un’intera generazione?
Perché si basa su meccanismi emozionali semplici, primordiali. Come tanto teatro di strada, che arriva a tutti, a qualsiasi fascia d’età, di qualsiasi estrazione sociale, ai colti e ai meno colti. Agisce su più piani, come i grandi autori: Plauto, Molière, Goldoni, Eduardo, Petrolini, Magni.
Quanto e in cosa ti mancherà Gigi?
Non so ancora quantificare il vuoto che provocherà la sua assenza. Mi mancherà come maestro, come genio, come testimone di nozze, come regista, come direttore artistico del Globe, come il più divertente commensale del mondo, come opinionista, come poeta, come musicista, come amico fraterno, paterno, come compagno, come romano romanista.
Come si può attrarre più pubblico a teatro?
Ritengo che il teatro, per attrarre molto pubblico, debba assomigliare al pubblico. Penso che il pubblico si debba riconoscere nei personaggi o debba poter riconoscere nei personaggi che agiscono sul palco gli umani che frequenta nella vita; credo che il pubblico voglia ritrovare negli spettacoli valori che spesso nella brutta copia della vita, che è la vita, non trova ma che spera di trovare nella bella copia della vita che sono il teatro e il cinema, divertendosi e commuovendosi. Poi ci sono forme di spettacolo alternative, meno popolari, avanguardismi spesso anche interessantissimi ma meno attraenti.
Come commenteresti questo delicato periodo in cui il teatro e gli operatori tutti hanno pagato il prezzo più caro?
Lo commenterei molto male, un anno caratterizzato dalla tristezza, dall’impotenza, dalla rabbia, ma bisogna usare questo periodo per leggere e scrivere, mettere a fuoco progetti futuri, recuperare il tempo perduto: sottratto alla propria crescita culturale per la spesso inutile e inspiegabile frenesia quotidiana.
Un pensiero personale e libero su Gigi Proietti?
Gigi è stato l’attore che più di ogni altro ha saputo eliminare il superfluo sul palco. Ha fatto esplodere in Italia IL MONOLOGO/ONE MAN SHOW. Lui da solo sul palco con una cassa ha eliminato tutto; ha saputo fare a meno di ingombranti scenografie, di cambi di costume, di partner, ma ugualmente, con pochissimi elementi, ci ha fatto vedere cento personaggi, facendoci viaggiare in qualsiasi epoca, in qualsiasi luogo, navigando su testi di tanti autori trasformandoli in tappeti volanti.
Il nostro lavoro che in altre lingue coincide col verbo giocare (to play, jouer), lui da gran giocatore, come un bambino che con le dita di una mano simula di spararti e poi di farti cadere a terra colpito, ha trasformato una sedia in trono, un bastone in scettro, una cassa in un cavallo alato. E non ci poteva essere teatro che rappresentasse meglio Gigi Proietti del Teatro Globe, che lui stesso ha voluto e creato, un teatro elisabettiano, che ha messo al centro del palco le storie e gli attori, facendo un patto di complicità col proprio pubblico:
Come sarebbe bello se potessimo avere qui con noi ora, una Musa così speciale
che ci permettesse di volare in alto
con l’immaginazione,
verso mondi fantastici e luminosi!
E avere qui magnifici luoghi invece di una scenografia, e di poter volare nel tempo sopra i protagonisti di questa storia.
Vedremmo allora agire veramente
su questa scena, nella loro intimità,
persone profondamente innamorate, le vedremmo ridere e godere, e poi
inginocchiate nel loro dolore,
mentre portano al guinzaglio come cani impazienti di agire al loro comando: l’amore, l’amicizia, la dedizione verso gli altri
Perdonate spettatori,
le nostre spoglie e tormentate menti
se stiamo osando di presentarvi qui,
su questo nostro indegno palcoscenico,
argomenti così delicati.
Come potrebbero mai queste mura
contenere nel loro ristretto spazio,
le sterminate campagne, i mari, i tramonti, i letti pieni d’amore.
tutti giorni passati, pieni di emozioni, di lacrime, di grida?
E perciò, vi ripeto, perdonateci;
ma se può un numero, in breve spazio,
con un piccolo scarabocchio rappresentare un milione,
concedete, a noi semplici zeri
di un infinito numerico, di stimolare
con la nostra recitazione le vostre menti.
Sopperite alle nostre deficienze
con le risorse della vostra mente:
moltiplicate per mille ogni momento di passione
e con l’aiuto della fantasia
create vite straordinarie.
Se udrete parlare di cavalli
pensate di veder cavalli veri
stampar l’orme dei lor superbi zoccoli
sopra il molle terreno che le accoglie.
Sarà così, la vostra fantasia
a veder mutare i personaggi di abito, a seconda delle diverse situazioni,
a spostarli dall’uno all’altro luogo,
saltellando sul tempo,
riducendo a una voltata di clessidra
gli eventi accaduti lungo diversi anni.”
Forse quando Gigi Proietti diceva: “mi dispiace di morir ma son contento” è perché sapeva di avere eredi come Pino Quartullo a cui va un doveroso grazie per averci aperto, in questa intervista, la porta del suo cuore.