Qualcuno ha definito sospeso quel tempo infinito in cui per fronteggiare l’incalzare della pandemia ci hanno rinchiusi in casa, dalla sera alla mattina. Tutto sottovuoto (o in stand by se avessimo ancora nostalgia dei termini anglofoni) a cominciare dalle relazioni umane o dalle attività lavorative. Per queste ultime bisognava trovare in fretta una modalità sconosciuta dalle nostre parti, il lavoro da casa. Per le prime, che si arrangiassero gli aspiranti che non fossero congiunti.
La protagonista di questo spettacolo IL BICCHIERE MEZZO PIENO E IL TEMPO SOSPESO, scritto, diretto e interpretato da Melania Fiore ricostruisce con intelligente montaggio semantico tutti i giorni di quel lungo blackout relazionale che abbiamo vissuto nella scorsa primavera.
Lo spettacolo -con la regia video di Aldo Emanuele Castellani– nasce da un’idea del prof. Domenico Arturo Nesci, ed è inserito nel Workshop CINEMA E SOGNI del FESTIVAL RISONANZE, nell’ambito della FESTA DEL CINEMA DI ROMA e in collaborazione con la FONDAZIONE CINEMA PER ROMA. Melania Fiore, lo interpreta con una naturalezza pregevole, restituendoci in quadri tutti declinati all’intermittenza emotiva che caratterizzava quei giorni, le insicurezze da cui eravamo attraversati. Melania interpreta una giovane (giovane è giovane anche se l’annuncio dell’imminente svolta negli “anta” aggiunge un filo di ansietà alla performance del suo personaggio) alle prese con la gestione in remoto di un amore appena nato e di una professione –quella di insegnante di lettere- già complicata dal vivo. I giorni sembrano tutti uguali (e così erano nel nostro ricordo, come una sorta di interminabile domenica pomeriggio piovosa) ma la capacità di questa scrittura e soprattutto la bravura dell’interprete riescono a vivacizzare l’insieme, vestendo di vivacità quel Nulla che sfilava di giorno in giorno nelle nostre povere residenze cittadine.
D’altra parte a emergere costantemente in questa pièce (difficile definirla semplicemente un monologo perché agita da un solo attore, tante sono le dimensioni di interlocuzione che si succedono) è tutta la filigrana identitaria che appartiene al suo autore/interprete: densità, versatilità, profondità. Tante le riflessioni, consegnate alla platea (in remoto) non con la forma insopportabilmente organizzata che spesso si vede a teatro, ma come pillole disordinate, fuoriuscite dal temperamento sincero di una giovane insegnante costretta a barcamenarsi tra l’esigenza di tranquillizzare i genitori lontani con poderose rappresentazioni del sé e la dura realtà di un frigorifero vuoto e di aspettative lavorative ansiogene.
Qua e là, si avverte il sapore di amare meditazioni posteriori su quel tempo, laddove il quartiere, a dispetto delle ipocrite scene di abbracci e saluti lanciati da balconi canterini e inneggianti, manifestava una irriducibile proclività ostile verso il vicino, non più fratello, ma possibile vettore epidemico. Non tutto è quello che appare, sembra dirci Melania Fiore: i giovani che crediamo immuni dai vizi maturi dei loro genitori sanno essere portatori di cattiverie e ipocrisie, esattamente come i più grandi, in quella finta commozione per una vicepreside scomparsa, o in quel pervicace esercizio bullizzante verso il sensibile compagno di classe Arrigo Stancanelli, tropo buono e troppo preparato per non vellicare la fame di vittime del gruppo coalizzato.
Ma lei la giovane insegnante di lettere è irriducibile nel suo impartire lezioni non convenzionali ai suoi allievi, perché la letteratura non entri in remoto tra i ragazzi ma “dentro le ossa”, perché loro –gli adulti organizzati- “vi hanno educato a non splendere. Ma voi splendete”. Dentro questa esortazione lanciata via zoom c’è tutta la tempra di un personaggio che non avrà timore di confessare che il tempo del lockdown per tutti è vissuto come una rivincita degli emarginati, per chi –come lei- una consuetudine con la quarantena ce l’aveva eccome, per le tante domeniche -e non solo- trascorse in casa a studiare e prepararsi. Allora quello è un tempo fratello, un tempo che le fa ottimisticamente vedere il bicchiere mezzo pieno e amare le strade silenziose, il canto degli uccellini, l’odore di torte di mele nell’aria. Un tempo insidiato dai proclami televisivi che annunciano il ritorno alla normalità. E non è detto che sia un bene per chiunque.
Melania Fiore dimostra con questa sua performance le sue straordinarie doti di interprete che avevamo già avuto modo di apprezzare in Beatrice risponde a Dante e in Intervista ai parenti delle vittime.
L’impronta metaforica del presente lavoro racconta perfettamente la sua propensione a non lasciarsi abbattere e condizionare dall’attuale compressione della dimensione teatrale, liberando un talento multiforme, che le consente di saper dove cercare, quando si tratta –come sta accadendo ancora con il protrarsi di una stagione teatrale che si annuncia ancora di fatto inibita- di trovare un’alternativa all’interno del suo percorso artistico, dedicandosi all’insegnamento on line.
E’ passato tanto tempo da quando due dimenticati Ministri di questa Repubblica, intrattenendosi sui temi delle risorse del Paese, licenziavano una frase che risuonò come un epitaffio per il decennio a venire: con la cultura non si mangia. Abbiamo tutti sogghignato nel decennio successivo per quella infelice uscita, ma il presente si è incaricato di trasformarla in desolante attualità, sbaragliando una ad una le esperibilità culturali di un Paese dove lo spazio è esclusivamente riservato al dualismo produzione/consumo di merci. Sarebbe un grave peccato se talenti come questi fossero indotti a non tentare più di percorrere la propria vocazione artistica, soccombendo di fronte alle tentazioni primarie della sopravvivenza.