di Miriam Bocchino
Daniele Gonciaruk, attore e regista messinese, fin da giovanissimo ha dedicato la sua vita al teatro: ha studiato, infatti, all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico di Roma, dove è stato allievo di maestri come Luca Ronconi, Carlo Cecchi, Hal Yamanouchi e Marisa Fabbri.
Nel corso della sua carriera artistica, in cui ha lavorato non solo in teatro ma anche nel cinema e nella televisione, ha recitato con registi e attori illustri, quali Giuseppe Patroni Griffi, Franco Branciaroli, Armando Pugliese, Carlo Cecchi, Walter Pagliaro e Turi Ferro. A quest’ultimo ha dedicato il suo ultimo lavoro cinematografico “Turi Ferro – L’ultimo Prospero”, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2019 (sezione “Omaggi e restauri”) e candidato alla Selezione Ufficiale 2020 dei Nastri d’Argento per i Documentari.
Nell’opera il regista, attraverso i contributi di artisti quali Paolo Taviani, Lina Wertmuller, Gabriele Lavia, Fioretta Mari, Giulio Brogi e Mariangela Melato, restituisce allo spettatore il ricordo e l’omaggio a uno degli interpreti più autentici del teatro siciliano.
Buonasera Daniele, ti ringrazio per l’intervista. “Turi Ferro – L’ultimo Prospero”, è il tuo ultimo lavoro cinematografico, dedicato alla vita del grande artista siciliano. L’opera ha avuto un grande successo di pubblico e critica: è stata, infatti, presentata alla Festa del Cinema di Roma e successivamente selezionata ai Nastri d’Argento per i documentari. Ti aspettavi un così grande riconoscimento e quali credi siano stati gli elementi che l’hanno resa così amata?
Sinceramente non avevo fatto previsioni su quella che sarebbe stata la risposta di pubblico e critica, non mi aspettavo neanche che arrivasse a far parte della lista dei candidati ai Nastri d’Argento. Sicuramente il nome di Turi Ferro, per i molti che lo hanno conosciuto, è un elemento di attrazione importante e per questo ho sempre sentito la responsabilità di trattare con un certo riguardo il materiale di cui disponevo. È un lavoro incentrato, soprattutto, sull’arte di Turi, sulle sue peculiarità di interprete, con qualche piccola divagazione sul privato. Ho parlato, particolarmente, del suo straordinario talento che ho avuto modo, un po’ di tempo fa, di vivere da vicino. C’è uno sguardo di riconoscenza nel mio documentario e questo penso che arrivi e coinvolga lo spettatore, che, come me, è grato per ciò che questo grande attore ci ha donato.
L’opera è stata definita da te “un viaggio per dare voce e memoria ad uno dei più grandi interpreti del Teatro Italiano del Novecento.” Turi Ferro è stato, infatti, un artista completo e un uomo che ha vissuto interamente di arte e, soprattutto, di teatro. Nel momento stesso in cui hai deciso, attraverso una handycam hi8, di riprendere Turi che interpretava Prospero durante l’allestimento dello spettacolo “La Tempesta”, nel lontano 1997, avevi già deciso di fare divenire un giorno quel materiale un documentario oppure era solo un ricordo da conservare?
All’epoca volevo fare, e in realtà poi ho realizzato, un backstage su quello spettacolo. Turi Ferro che incontrava Prospero era un occasione irripetibile e unica. Di questo mi ero reso subito conto. Ho passato molto tempo dietro quella piccola handycam, pur facendo parte io stesso dell’opera. Avrei, però, voluto integrare, oltre alle immagini rarissime di questo grande attore in prova, a tavolino o in palcoscenico, alcuni suoi interventi, ma il Signor Ferro, così io lo chiamavo, non amava molto essere intervistato, soprattutto poi da un ragazzetto quale potevo essere io allora; cosa peraltro assolutamente comprensibile. Quel lavoro, così, si concentrò più sullo spettacolo che non sull’attore. L’idea di fare un lavoro totalmente a lui dedicato è arrivata molto dopo, quando mi sono reso conto che la sua memoria stava affievolendosi, e sicuramente il giorno in cui, dopo quasi vent’anni, riguardai quell’incredibile girato in hi8.
Turi Ferro, nonostante sia stato uno dei maggiori interpreti del Novecento, è spesso una figura sconosciuta ai più. Ciò è, anche, frutto di un carattere all’apparenza ostico?
Se qualcuno voleva capire qualcosa di Turi Ferro doveva vederlo in palcoscenico. Lui stesso mi disse che non amava molto parlare pubblicamente; non amava molto i contorni, le chiacchiere, sebbene fosse nel privato un compagnone e una persona molto spiritosa (cosi nel mio documentario alcuni amici confessano). Credo, però, che per lui si dovesse parlare di teatro solo a teatro. Questo “rigore”, se così possiamo definirlo, ne ha, per certi versi, penalizzato forse la memoria e la possibilità di avere oggi più documentazione, a parte ovviamente gli spettacoli. Sicuramente, come tanti altri grandi attori, caratterialmente aveva i suoi pregi e i suoi difetti; lavorargli accanto poteva, anche, essere duro ma era una grande scuola.
Nel documentario gli intervistati restituiscono di Turi Ferro l’immagine di un uomo che pretendeva moltissimo da sé e dagli altri e che era in grado attraverso il corpo e i silenzi di comunicare interamente il “suo teatro”. Tu che personale ricordo hai di lui?
Io di lui ho un ricordo fortissimo e tenero. Un giorno in camerino mi fece un discorso, in parte era un rimprovero, in parte un elogio. Mi regalò delle parole irripetibili di stima che conservo ancora come un dono prezioso. Ho un piccolo rammarico: avrei voluto essere più sfacciato e rubargli più tempo e fare altre chiacchierate. Non era semplice.
In “Turi Ferro – L’ultimo Prospero” sono presenti i contributi d moltissimi artisti quali Paolo Taviani, Lina Wertmuller, Gabriele Lavia, Giulio Brogi, Leo Gullotta, Tuccio Musumeci, Pippo Pattavina, Fulvio D’Angelo e un ricordo inedito di Mariangela Melato. Quest’ultima dà di Turi una memoria differente, raccontando un momento di “errore” dato dalla dimenticanza di una battuta e fornendo allo spettatore, anche, l’immagine di un uomo dotato di sue fragilità. Hai avuto modo di intravedere questo aspetto più intimo di Turi Ferro?
Sì. Ma la fragilità che ho visto io era diversa, probabilmente, da quella a cui aveva assistito la Melato molto tempo prima. Io ho lavorato con “il Signor Ferro” praticamente negli ultimi anni, e fatto con lui anche il suo ultimo spettacolo “La Cattura”. Di conseguenza, per ragioni di tempo, avevo davanti un uomo con alle spalle già tanti anni e forse qualche problema di salute legato all’avanzare dell’età, e la tenerezza di cui parlavo prima veniva proprio da questo. Percepire quanta forza lui mettesse ancora per arrivare al migliore dei risultati era qualcosa di tenero e strabiliante. E quei rari momenti di défaillance lo rendevano, nella sua grandezza, estremamente umano.
Turi Ferro è stato tra i fondatori del Teatro Stabile di Catania e uno dei maggiori interpreti che ha contribuito a rilanciare il teatro siciliano a partire dall’immediato dopoguerra. Anche la tua terra natia è la Sicilia, nello specifico la città di Messina. Credi che la provenienza da un territorio così affascinante ma anche ricco di contraddizioni e difficoltà possa essere prolifica nell’accentuare il lato artistico di una persona?
Assolutamente sì. Anche quando i rapporti con la tua origine possono essere conflittuali la porti sempre con te e la elabori in continuazione. Nel mio caso, la mia terra, e in particolare la mia città, è presente in molti progetti che ho realizzato o che spero di realizzare ancora.
Ritrovi ancora oggi la concezione del teatro di Turi Ferro e dei molti artisti che hanno vissuto il Novecento o credi che il cambiamento sia inevitabile e quel teatro non abbia più il suo “tempo”?
Se vivremo di nostalgia uccideremo quel Teatro per sempre. Stiamo senz’altro vivendo un cambiamento, complici anche le nuove piattaforme di comunicazione. Bisogna, però, stare attenti perché è in atto anche un pericoloso gioco al “ribasso” che ci fa allontanare da quelli che erano e sono i fondamentali punti di riferimento artistici. Allontanarci troppo da quel Teatro, o da quel rigore, è veramente pericoloso e rischiamo di trasformare, in particolare l’arte drammaturgia, cioè della recitazione, nella fiera dell’improvvisazione.
Durante il corso della tua carriera hai tenuto dei seminari di recitazione presso alcune scuole di Messina situati in quartieri a rischio e nel 2015 hai creato la “Scuola Sociale di Teatro”. L’arte, nella sua accezione più ampia, può essere “un’ancora di salvataggio” e svolgere un ruolo di “catarsi” e cambiamento?
Sì, può, ma bisogna stare attenti. Infiammare i cuori alla passione per l’arte o il teatro è facile ma bisogna essere responsabili. Ho smesso di insegnare nella mia città quando ho visto il proliferare, nel giro di un paio d’anni, di una miriade di scuole, accademie, laboratori. Sembrerebbe un segnale positivo ma non è proprio così. Io ho sentito il bisogno di fermarmi. Almeno per il momento.
Ho capito che, per molti fruitori, non fa differenza chi insegna cosa, o che tipo di preparazione abbia un maestro (da dove viene, dove ha studiato, con chi ha lavorato) e con grande stupore (e un pó di preoccupazione) registro la comparsa di nuovi attori, registi e perfino “maestri” dal nulla.
Ecco la fiera dell’improvvisazione di cui parlavo prima. E questo non è affatto un bene. Quindi certo, l’arte nella sua accezione più ampia può essere un’ancora di salvataggio e di cambiamento ma bisogna, tuttavia, stare attenti che l’arte o il cambiamento non siano solo il frutto di mercificazione o di mistificazione.
Oggi che l’Italia e il mondo intero vive una situazione di profonda difficoltà, non solo economica ma anche culturale e sociale quanto l’artista può dare un suo contributo allo “stato delle cose”?
L’artista è la figura che più è stata messa in difficoltà da questa situazione, da questa emergenza sanitaria. L’unico contributo che può dare un artista in questo momento è quello che può dare solo a se stesso: non mollare.
Che momento è oggi per te come artista e come uomo? Hai già in atto un nuovo progetto a cui dedicarti?
Ne ho più di uno per mia fortuna o sfortuna. Sto finendo di scrivere il mio nuovo spettacolo sull’astrofisica che ha vinto il bando Eureka a Roma e che spero presto di mettere in scena nella Capitale. Sto lavorando a due nuovi documentari e in tutto questo non vedo l’ora di riportare Shakespeare a Messina. Magari in autunno.
È un momento di fermento ma anche di grande responsabilità: le avversità sono sempre dietro l’angolo e possono rallentare il tuo percorso. Io conservo sempre quelle poche parole che Vittorio Gassman mi disse tanti anni fa (ancora ero uno allievo in Accademia). Eravamo dentro un bar romano, il Bernasconi (bar che ora non esiste più) accanto al Teatro Argentina, dove in quei giorni lavoravo come comparsa e mi disse queste poche ma efficaci parole: “ragazzo mio ti sei scelto un mestiere difficile, datti da fare”.