CHANT D’HIVER di Otar Iosseliani: la recensione

Il ghigliottinato in procinto di morire non rinuncia alla sua pipa, trincee sono le rovine delle case per i soldati avvolti dalla polvere; il rumore di spari precede un saccheggio senza scrupoli, l’invasione violenta nelle abitazioni, gli stupri dell’esercito.

Presente fin dall’incipit di “Chant d’hiver” (2015), l’esplicito rimando ad una pluridimensionalità di piani narrativi, motiva il repentino passaggio da un epoca all’altra, mentre il paradosso, ricorrente ad ogni scena, innesta echi grotteschi, quasi irreali, agendo come trait d’union nell’alternanza di inquadrature.

Dapprima sconnesse, sconclusionate, inverosimili, le immagini nell’opera di Otar Iosseliani sembrano articolarsi dalla medesima cellula di significato: nella quasi assenza di parola, il regista georgiano sembra affidarsi al significante dell’immagine che, forse ancor più pregnante, si pone come veicolo di connessione fra sequenze, atto a ridurne la divergenza.

Un pianoforte fra le macerie, furti di cappelli, un clochard schiacciato da un rullo compressore: volutamente noncurante, il ricorso alla violenza si afferma secondo modalità tanto stranianti quanto brutali, adiuvando il costituirsi di un legaccio invisibile tra i personaggi.

Tre donne all’uncinetto, un prelato caduto nel tombino, un portinaio che traffica libri antichi in cambio di armi; costretti ad agire entro la struttura di ricorrenti e reciproche incidenze, gli abitanti di un quartiere si rivelano ora centrali ora accessori in risposta ad uno sguardo registico tanto mobile quanto mutevole.

Nel compiere un movimento oscillatorio che risponde all’irriducibile divario tra gli strati sociali, il racconto alterna le immagini su modalità contrastive: parallelo ad un violento sgombero di profughi, il litigio di una coppia si consuma nell’appartamento soprastante, due anziani amici si contendono la mano di un’inferma, un ragazzo rincorre una violinista.

Presupponendo uno sguardo che non si limiti all’apparente non-sense delle circostanze evocate, ma sappia riscontrarne le profonde aderenze, la copresenza di piani; l’opera, presentata al 68° Festival di Locarno, fa dell’elemento surreale lo strumento d’indagine nell’osservazione poetica, talvolta malinconica, di dinamiche antropologiche, rese ancor più intense dall’interpretazione di un cast eterogeneo (con Amiran Amiranashvili, Pierre Etaix, Mathias Jung, Mathieu Amalric, Enrico Ghezzi).