di Miriam Bocchino
In occasione dell’XI edizione del Festival Internazionale del Cinema Patologico ho avuto l’occasione di vedere uno dei lungometraggi in concorso “Affittasi vita” del regista Stefano Usardi.
Il festival si pone l’obiettivo di promuovere il giovane cinema italiano e straniero attraverso la visione di opere che possano creare sinergia tra il mondo artistico e il disagio mentale e l’emarginazione sociale.
“Affittasi vita”, scritto e diretto da Stefano Usardi, è una commedia che con toni leggeri racconta uno spaccato di vita odierna e comune; la ricerca della libertà in ogni suo modo e a seconda delle possibilità di cui l’esistenza ci ha donato accomuna ogni uomo.
Il protagonista è Michele (Massimiliano Varrese), un giovane pittore a cui sembra che l’esistenza abbia già dato tanto, così tanto che non gli rimane nulla di cui appassionarsi. Ha una fidanzata ricca, Francesca (Valentina Melis), che dirige la sua vita in modo perentorio e un lavoro che, nato come passione, è divenuto un mero strumento di guadagno e prestigio, soprattutto per gli altri.
A Michele, infatti, è stata commissionata una prestigiosa pala d’altare ma il lavoro a 10 giorni dalla consegna è incompleto, non finito e lui, in modo pacato e flebile, attraversa i suoi giorni, osservando quel dipinto e non trovando l’ispirazione.
Francesca, colei che le ha trovato il lavoro da completare, lo pone dinnanzi una scelta: terminare la pala d’altare oppure la loro relazione. Caccia via Michele da casa sua, con pochi soldi e nient’altro che i pochi beni che possiede.
La relazione tra i due è dominata dalla freddezza e dall’incomunicabilità. Francesca appare una donna sicura di sé, forse troppo superficiale per comprendere che il fidanzato non è felice bensì si trascina in una vita non sua, quasi come presa “in affitto”.
La voce di Michele, nella prima parte del film, non viene quasi percepita. Si osservano lo sguardo, i gesti, la camminata di Massimiliano Varrese, che riesce a restituirci l’interpretazione di un uomo spento, vacuo, senza desideri o malinconie.
Solo quando Michele, costretto ad andare via di casa, prende in affitto un appartamento alla periferia di Trieste, la sua interpretazione cambia, lentamente e con diffidenza.
I vicini, infatti, irrompono nella sua vita, non richiesti e non voluti, riuscendo a squarciare il vuoto di espressione e di emozioni a cui Michele si è assuefatto.
Il vicinato è composto da persone a cui l’esistenza non ha regalato molto, forse tanti problemi ma, anche, la capacità di affrontarli realmente. Troviamo Andrea (Sara Manducci) che si avvicina a Michele grazie alla comune passione per la pittura e perché intravede in lui uno spiraglio di speranza e Rosalia (Luisa Maneri), la cui figliastra (Lara Balbo) è rinchiusa in un centro psichiatrico dal quale non può uscire, se non attraverso l’assenso del padre (Francesco Migliaccio), che, tuttavia, è scomparso dalla loro vita e di cui scopriremo la bizzarra scelta.
Ma Michele apparirà realmente vivo e la sua voce chiara e lucida nell’incontro con il venditore di bare Boban (Giulio Cancelli) che lo “costringerà” a prendere parte ai suoi affari e ad affrontare la vita con un “bell’occhio nero”.
“Affittasi vita”, attraverso la conoscenza dei tanti personaggi, consente allo spettatore di osservare come la libertà soffocata non può rimanere esiliata per sempre; la generosità e il senso di comunità emergono come caratteristiche dell’essere umano, che, indipendentemente dall’esistenza condotta e dalla comunanza di esperienze, è indotto ad atti di bellezza.
La bellezza non è data dall’essere convenzionali o considerati “sani” dalla società ma dalla capacità di considerare l’altro semplicemente quello che è.
“Ogni istante non siamo più quello che eravamo prima”.
Nel film i rumori della città, delle strade e della periferia ricoprono un ruolo fondamentale. Se nella prima parte appaiono la solo essenza di rumore e vita in esistenze stereotipate, nella seconda parte accompagnano le azioni dei vari personaggi ma non le dominano.
Molto belle le musiche originali dei Sursumcorda (gruppo musicale italiano) e il brano di Romica Puceanu (cantante rumena di musica rom).
La fotografia di Enrico Michieletto coglie vedute e squarci di Trieste in grado di regalare il senso di meraviglia che al protagonista sembra mancare all’inizio del film.