La forma vaporosa d’un abito bianco, un rumore di passi, l’avanzare di un uomo (Walter Montevidoni) dal buio alla luce; esce dalla penombra annuncia concitato il suo ritorno: il monologo è spezzato, cadenzato; il ritmo trionfante costantemente interrotto dallo scroscio, dal tonfo, dallo sbatter di piedi delle altre figure in penombra.
Insolito sin dalla sua prima scena, prende così avvio “Le mammelle di Tiresia” di Guillaume Apollinaire, dramma surrealista in due atti interpretato dalla regia di Andrea Martella: la voce si alterna al coro, al dispiegarsi delle grida dell’esercito: “Scendono le stelle a colpi di cannone” – di fronte all’assassinio delle costellazioni si afferma l’annuncio di una nuova era, il riaccendersi degli astri.
Se l’intento dell’opera- sostiene il prologo- è quello di rifondare i costumi, la trama si sviluppa dipartendosi da un tema, quello domestico, le cui premesse si apprestano a subire continui ribaltamenti: laddove l’opera, nell’epoca a sé contemporanea, si affermava sin dalla sua prefazione, atto iniziale del teatro surrealista, la compagnia Hangar Duchamp intende richiamarne l’elemento comico poetico eleggendo a filo conduttore il controverso mondo dell’infanzia.
Sul fondo della scena cinque personaggi si infilano e si sfilano la giacca, mimano impassibili le azioni espresse da una voce narrante intenta a descrivere un teatro nuovo che faccia scaturire la vita stessa, quand’ecco che le note di “Non sono una signora” annunciano l’ingresso della protagonista: una scarpa al posto del microfono, un girotondo di personaggi attorno a lei; Teresa sancisce cantando la fine della sua condizione di donna alla quale, urlando si ribella.
Nel contesto di una Zanzibar in periodo di guerra, azione centrale dell’opera è l’avvento di una metamorfosi, quella di Teresa (Simona Mazzanti) in Tiresia, quella di una donna che scaccia da sé i suoi attributi, ammutinandosi al suo ruolo, liberandosi del marito, dei suoi doveri precostituiti, delle sue vesti femmine, delle sue stesse mammelle.
Due grandi palloncini rosa volano via dal suo petto, questo l’atto d’inizio per un’inversione di ruoli che condurrà il marito (Flavio Favale), nel corso di un dinamico rituale, ad acquisire i suoi abiti e sembianze: costituitosi nell’ininterrotta successione di immagini, nel ricorso ad azioni ed oggetti simbolici ora inattesi ora controversi, l’opera fa appello agli elementi suggestivi della scrittura surrealista restituendone l’impatto scardinante; turbano però alcuni tratti della sua declinazione contemporanea.
Se l’intervento del sound engineer (Attila Mona) risulta infatti funzionale nello sviluppo di un’ambientazione sonora che è trait d’union tra le singole scene, se la scelta di accorpare i due atti in un unico tempo appare armonica e coerente nell’andamento; eccessivo nella sua ricorrenza è l’inserto di canzoni pop contemporanee che in alcuni casi rischiano di distogliere l’attenzione dal nucleo dell’azione sostituendosi completamente ad essa.
Avvolto dal piagnucolio di bambini, l’uomo fattosi donna si lascia andare ad una danza dinamica; interrotto da un ambiguo gendarme (Edoardo Rosa) e da una giornalista parigina (Giorgia Coppi), lo vediamo poi ruotare sul palco trasportando su di un carrello un eccentrico infante (Vania Lai).
Evocativo il disegno luci di Petro Frascaro, riconduce la scena su un piano volutamente onirico dove labile appare il confine fra incubo e sogno accordandosi con la puntuale scelta di costumi di Anthony Rosa e con l’ installazione scenografica di Valerio Giacone.