ANNA CAPPELLI: La recensione

Quante le strade che dobbiamo ancora percorrere per tenere distinto l’impulso d’amore da quello dell’appartenenza esclusiva capace di trasformarsi in irrazionale e perverso dominio ? Questo il tema di fondo della pièce di Annibale Ruccello Anna Cappelli andato in scena al teatro Brancaccino, per la regia di Giancarlo Fares, e che verrà replicato dal 28 al 31 dicembre, (con annesso brindisi di Capodanno), al teatro Spazio Diamante.

 Il quesito- rimasto tragicamente attualissimo- prescinde da steccati di genere e in questo caso riguarda una donna che sperimentava la propria autonomia nell’Italia degli anni Sessanta. Si tratta di uno degli ultimi lavori dello sfortunato autore napoletano, talento vero del Teatro italiano rimasto troppo giovane perché scomparso prematuramente e che ha regalato diverse opere di grande spessore, rappresentate sempre con successo.

Questa forse è la meno riuscita, perché la tesi di fondo(racchiusa nel quesito che ci siamo posti) fa troppo velo al processo narrativo che, per quanto cerchi di sottrarsi alla egemonia del principio di ispirazione, non riesce sempre a emanciparsene del tutto, tanto che i quadri, in cui è suddiviso il racconto, sembrano precipitare fatalmente e troppo sbrigativamente verso la trappola finale dell’epilogo, potenzialmente già annunciato, date le premesse iniziali sparse nella costruzione del personaggio.

In scena la protagonista unica, Anna Cappelli, una donna semplice, impiegata al Comune di Latina, che ha lasciato nella natìa Orvieto le radici di una certa vocazione all’esclusività, che le impedisce anche solo  di ammettere che la sua stanza da ragazza possa venire occupata –in sua assenza-  dalla sorella rimasta in casa. Anna vive in una stanza ammobiliata, in condivisione con una scomoda coinquilina –la signora Rosa Taverini-  che la affligge con i suoi gatti e la puzza che irradierebbero. Lei, di suo, ricambia con gli olezzi della pancetta fritta. Insomma a colpi di puzze, le due simbolicamente duellano con le rispettive idiosincrasie. Di lei, di Anna si intuisce una certa dannazione di solitudine, temperata dalla scarsa dimestichezza con l’approfondimento, tutto superficiale lo sguardo sul mondo che la circonda, (che d’altra parte non possiede nessuna fascinazione per lasciarsi esplorare).

Nella croce quotidiana delle sue simmetriche giornate (lavoro/casa/straordinari) trova giusto il tempo di parlare con qualche dirimpettaio: un giorno attacca bottone con il ragioniere Tonino, che vive da solo con l’unica assistenza di una governante.  in una casa di proprietà (“sua, tutta sua” ?, domanda meravigliata Anna Cappelli,  liberando la sua innata propensione alla sovranità esclusiva sulle cose, che le fa ripetere in continuazione il mantra  patologico di ogni suo piccolo avere “mio, tutto mio mio”). Il ragioniere, dopo un po’ le propone di andare a vivere da lui, in semplice convivenza, fuori dalla regola matrimoniale che a lei –data la formazione e il paventato vociare pettegolo dei suoi colleghi- sarebbe stata tanto più congeniale. La convivenza si rivela, però, dopo qualche mese difficile, perché perturbata dalla presenza di Maria, la governante storica, di cui Anna avverte l’interferenza ostile: ormai considera l’uomo –e così pure la casa- suo, tutto suo. Tonino asseconda Anna, e così la convivenza continua, maquando il ragionierele comunica la decisione di vendere quell’appartamento per trasferirsi in Sicilia e quindi di sloggiarla da lì e dalla sua vita senza troppi riguardi, Anna non trova altra soluzione che quella di imboccare -in un epilogo tragico- la discesa folle della sua ossessione di dominio.

Un monologo nel quale il fuoco dell’attenzione è rivolto all’unico personaggio in scena, interpretato da Anna Mazzantini con estro leggero e brioso, disponibile presto a lasciarsi convertire alle sfumature del dramma che prende progressivamente corpo. Non possiamo sorvolare sul coraggio di questa interprete che non ha temuto di misurarsi nel confronto con due grandi attrici come  Maria Paiato e Anna Marchesini, che nel passato –tra le tante altre- hanno interpretato la pièce. La sempre apprezzabile e attenta regia di Giancarlo Fares, consente di lasciar acquisire il pregevole risultato della riflessione a spettatori non così spesso chiamati, con la stessa autorevolezza,  al medesimo esercizio da parte di allestimenti inutilmente frivoli o scontati. La scenografia è di Fabiana Di Marco, i costumi sono di Rosa Tafuno e Viola Gentile.