ORSON WELLES’ ROAST all’Ambra Jovinelli: La recensione

Giuseppe Battiston incarna (nel vero e proprio senso del termine) un monumento del Cinema internazionale come Orson Welles e la promessa della serata è quello di “rosolarlo” al fuoco lento di una visione laica della sua figura, con i suoi vizi, la sua genialità senza confini, le sue idiosincrasie, la sua feroce ironia.

A scena pressoché libera da ingombri descrittivi, compare l’attore vestito della stessa monumentalità del suo personaggio, un accappatoio/vestaglia bianca a foderare una pinguedine irresolubile, le volute di fumo di un sigaro perennemente acceso, tirato da una sempre più asmatica voluttà, il forte accento anglosassone della sua parlata italiana, arrochita dal quel tanto di cavernoso e grottesco che il personaggio intendeva trasferire. L’esordio narrativo promette divertimento, giocandosi l’unica battuta vera della serata, legata alla voracità del grande regista e da qui si parte per una rapida –ma non veloce, per via dello spazio temporale che viene riservato alle boccate del sigaro- ricognizione sulle sue esperienze formative: il talento precoce di un bambino prodigio, versato in tutti i campi artistici, la passione per il teatro che lo conduce alle prime esperienze in Irlanda, l’incontro con Shakespeare, il personaggio di Falstaff, con cui non è difficile credere  che il processo di immedesimazione fosse più che completo.

Nell’attesa della rosolaturadel personaggio (da subito avevamo avuto il sospetto che il termine inglese del titolo si avvicinasse alla categoria dello “sfottimento”, ben nota dalle nostre parti), la narrazione prosegue con il ricordo del celebre scherzo consumato ai microfoni radiofonici della CBS, quando impaurite legioni di americani si lasciarono terrorizzare dall’improbabile annuncio dell’invasione dei marziani. Il compito di esplorare la profondità del personaggio è affidato a certe improvvise tirate sulla voce di Battiston, come se il personaggio rappresentato fosse ancora impegnato a redarguire un’invisibile troupe, al richiamo ad un “altrove” che sembra inesorabilmente sfuggirgli di mano, come una dannazione immanente, all’amara constatazione che “il pubblico crede a tutto”. C’è spazio (a parte le intermittenze di pause da spuntino di quando in quando) anche per una finestra narrativa sulla vera passione del personaggio: la prestidigitazione, di cui Battiston si incarica di darci prova attraverso qualche piccolo numero. A chiudere la serata, ancora il racconto di una pantagruelica abbuffata alla corte di un amico, celebre torero andaluso, disponibile ad accogliere le sue ceneri in quel di Ronda, laddove riposano molte eccellenze della cultura mondiale, come Hemingway, che, come lui, hanno sempre inseguito un altrovedifficile da afferrare.

Si chiude nell’attesa inappagata di quella promessa celebrazione irriverente del grande regista, la partitura troppo declinata alla didascalia del racconto, debole la drammaturgia, come se a risaltare non dovesse   che risultare unicamente l’impeccabile recitazione di Giuseppe Battiston. Proprio come forse avrebbe fatto Orson Welles, imponendo la sua personalità a dispetto di tutti gli altri fattori del racconto intorno a lui.