Si direbbe una forsennata pantomima, l’iterazione spasmodica di un quotidiano deformato, serigrafato. Tre sagome si muovono pervase da un’intermittenza totalizzante, ripetono il micromovimento fino a snaturarlo, fino a tramutarlo in ticchettio, in angoscia.
Ora ballerini, ora spadaccini, ora oggetti dinamici, antropomorfi; simulano la circostanza che corre; mimi d’un parto, di autoerotismo, d’un tempo che si accartoccia su se stesso.
E’ nel tentativo di obliare la morsa del dolore che si origina “Il Quarto vuoto”, scritto diretto da Gina Merulla che ieri, 20 Agosto ha abitato lo spazio aperto dei Giardini della Filarmonica Romana: il gesto sempre più compulsivo diviene travestimento in divenire, maschera dinamica d’un horror vaqui che attanaglia l’esistenza.
“Ad un tratto la musica tace e mi risveglio” -si catapulta il contesto, nel ribaltarsi spalanca il varco: come grido, come eco di caverna, la voce si districa dall’abisso; al cospetto d’un subitaneo chiarore, un quarto organismo.
Laddove prima vi erano sagome, ora vi sono corpi: si contorcono, si comprimono, si stiracchiano, si avviluppano in architetture viventi il cui respiro diventa un tutt’uno: avvinghiati in un “abbraccio rovente” sono ora madidi e spaesati; li abita il deserto, li sviscera il vuoto.
Membra esili, membra metalliche, ingabbiate, soggiogate dai loro stessi slanci; sembrano volersi districare da se stesse mentre il dolore li pervade e attiva su di essi vibrazioni inconsuete, epilessie aliene.
La platea ha occhi irremovibili, fissi sul proscenio si predispongono ad un’ipnosi: seguono gli spasmi di Sabrina (Sabrina Biagioli), osservano la contorsione ipercorporea di Massimo (Massimo Secondi), ascoltano il rumore metallico della schiena di Fabrizio (Fabrizio Facchini) che ridondante urta la staccionata.
Ed ecco, Mamadou. Mamadou Dioume. Le sue orbite si fanno roteanti, sembrano seguire gli itinerari repentini d’un labirinto, ruzzolare fuori allucinati.
Vi è una visione altra che travalica la corporeità dell’atto, un’energia deflagrante che echeggia “in questa quasi vita, in questa quasi morte…”: se da un lato l’atto cannibalico si consuma sanguigno, erutta la vita altrove, dall’atto d’amore.
“Salvati! Salvati! Salvati! “– ancora rimbomba il lamento plasmato dal timbro di Andrea Lavagnino: un ingorgo occlusivo, dove siamo?
Solenne e scultoreo, Dioume solleva il corpo della donna che, più piccolo, si rannicchia in lui: paura del fuori, terrore del dentro; “ti cerco ma sei troppo lontano!”