Storia di un grande classico di Natale che ne celebra la nostalgia
Ogni anno di questi tempi l’atmosfera si riempie di una nenia struggente, che per tutti noi, distratti ascoltatori, sembra suggerire, una per una, le immagini del Natale occidentale: la neve, i pastori, la capanna della Natività, i pacchi dono, le cornamuse. Forse ci desterebbe non poco stupore scoprire che invece Bianco Natale (di questa parliamo), la canzone universalmente riconosciuta come la sigla del Natale – non contiene nella sua parte testuale nessuna di queste immagini. A sentirla immancabilmente replicare negli anni, quella cantilena malinconica che sa di semplicità, man mano che l’opulenza e la frenesia consumistica infiltravano la maggiore delle festività religiose, c’è da rimanere dissociati.

White Christmas arrivò in Italia con la voce di Bing Crosby – © Screp Magazine
Quando fu composta, nel 1942, l’Europa era nel pieno del devastante conflitto, che non avrebbe tardato a diventare mondiale, proprio con l’entrata in guerra degli Stati Uniti. Milioni di giovani americani si dovettero rassegnare a mettere da parte la propria vita e trasferirsi là dove il fronte bellico li richiamava. E forse questo è stato alla base del suo successo: una colonna sonora che scortava la memoria di un tempo andato, risveglio del senso di una ricorrenza capace di convocare la comunità nel nome di un umanesimo che sembrava perduto e comunque distante. Da noi, in Italia, White Christmas arrivò con la voce di Bing Crosby che la eseguiva in tono da confessionale. Perché White Christmas non parla del Natale: parla dell’assenza del Natale. È il sogno di un passato immaginato, come le estati d’infanzia che ricordiamo solo dopo averle perdute. In fondo, in realtà, una canzone sulla solitudine
Divenne presto un rito familiare, un sottofondo inevitabile, come la tombola o il presepe e soprattutto una sorgente di diritti inesauribile per i detentori del copyright.
Ma a questo proposito è tutt’altro che irrilevante soffermarsi ancora un attimo sulla persona di chi quei diritti detiene, cioè su chi ha composto questo straordinario successo universale. C’è qualcosa di beffardamente ironico nel fatto che la più celebre canzone natalizia sia stata scritta da un ebreo di origini russe, uno che per definizione non celebrava affatto la Natività: Irving Berlin, nato bielorusso emigrato da piccolo a New York, figlio di un cantore di sinagoga.

Irving Berlin – © Diego Alverà
Si disse che forse solo un uomo estraneo a quel Natale poteva raccontarlo con tanta purezza, chiunque altro ci avrebbe messo dentro i pastori, l’albero. Il panettone magari. Berlin, no. Lui mise soltanto la neve – e la nostalgia (magari senza insistere più di tanto sul canone della Natività per non contrariare troppo la sua Comunità religiosa). Ma così fece centro. Ma era evidentemente un predestinato che ci sapeva fare con i simboli e le leggende: qualche anno prima aveva composto la canzone che sarebbe diventata l’emblema della Nazione che lo aveva accolto: God Bless America.
Morì nel 1989 più che centenario: qualcuno lassù gli deve essere stato riconoscente.
“White Christmas” – eseguita da Bing Crosby – di Irving Berlin – 1942




