Un tessuto di allucinazioni visive e sonore
Una splendida versione onirica ossessiva, notturna, da camera, l’Amleto messo in scena da Jared Mc Neill, prima attor giovane e aiuto regia del grande Peter Brook, e da qualche anno regista in proprio, nonché insegnante alla Silvio D’Amico. Pur conservando i fondamentali, il nostro taglia e cuce, spostando e concentrando, sia spazialmente sia le parti (tre attori multiruolo). La scena è sempre la stessa, tutta in nero. Al centro un catafalco nero, al contempo altare funebre pedana di trionfi e diaframma tra stati mentali. Dietro, sempre in nero, una parete, con due aperture ai lati, affiancate da quinte diagonali, drappeggiate.

Il resto lo fanno le luci, che sottolineandoli o cancellando per abbagliamento, segmentano gli spazi e gli stati mentali. Luci bianche, blu, rosse, che accendono il nero o i volti di brividi lividi rossori di sangue. Quella del regista è un’opera di smontaggio e rimontaggio, cinematografica.
Alcune parti del testo vengono rimormorate ossessivamente, con sussurrii in voce off, come per esempio il celebre monologo morire, dormire, forse sognare. Il famoso granello di sabbia nell’occhio della mente, come un allucinatorio impedimento alla pace, come in Macbeth l’allucinazione del coltello. Macbeth ha ucciso il sonno, ma anche Amleto. Perché nel sonno della morte .. Quali sogni possono venire?.
Tutto si riduce forse ad un incubo, ad inferno mentale, dove tutto è già precorso, già accaduto.
In un cerchio di morte. La sua. Quella di Ofelia. Di Polonio.
Eppure… Non quella del re. Come vedremo.
Dunque l’impedimento ad uccidere lo zio, cioè il re (assassino di re), cioè il padre, l’impedimento edipico, qui si manifesta concretamente, come morte e castrazione.
Muore Amleto. Vive il potere. Il figlio perisce per mano del padre, simbolico, per mano del potere, a cui gli è interdetto edipicamente l’accesso.
Il figlio allucina la colpa, recita la colpa che lo zio ha recitato nella realtà per lui.
Amleto è posseduto dalle voci, è se stesso ed è il proprio padre. Così all’inizio, in una scena invasa dai fumi (come le nebbie delle streghe macbettiane) Amleto (un versatilissimo Manuele Morgese) ci appare seduto gambe penzoloni sul mortuario catafalco nero, lui stesso in nero. Indossa la corona, ma anche un vistoso orecchino. Forse il segno di una latente omosessualità (il paterno come potere, sbarrato). Poi si accascia, muore, diventa una salma, che la madre e lo zio vengono a coprire con un velo. La madre gli toglie la corona, e la tiene alta levata, mentre lo zio-re in avanscena si fa narratore, prologo vivente.
Una scena che tornerà identica alla fine, confermando la sovrapposizione.
Questo dell’inizio era sì il re padre ucciso, ma anche Amleto.
Amleto è posseduto, invaso, devastato dall’impossibile dettato paterno. Infatti, dopo altre scene, scandite da cambi di luce, eccolo che, ginocchioni, riceve dallo spettro la narrazione dell’assassinio. Ma più che riceverla, ne è invaso.
Cade in trance, e come la sciamana in Rashomon di Kurosawa, è posseduto da una voce altra, cavernosa, che narra dal suo corpo, mentre lui, il volto abbacinato da luce bianca, sospeso nelle tenebre, quasi decapitato, mima la disperazione con mani ad uccello, agitate vicino sopra contro il proprio volto (anche in ciò, splendido Morgese). E le campane attorno, come in Spleen di Baudelaire, urlano.
E tante altre ne potremmo dire di queste epifanie al contempo visive e sonore, dove il tempo è rovesciato, e la morte onnipresenza.
Suggestivo per esempio quando dopo la morte del re, all’inizio, madre e zio, curvi dietro il catafalco tramestano, alzandoli ed abbassandoli, con dei teli, come a fare il bucato.
Il bucato per lavare il sangue?
Se all’inizio è solo una suggestione, sempre macbettiana, quando la scena si ripresenta alla fine (niente duello, e solo Amleto che muore bevendo veleno), la suggestione ha conferma nella luce che tinge ora di rosso gli stessi panni.
E poi. Dicevamo
Montaggio, alterazione dei tempi tra vita morte e stato mentale.
Diversamente dal testo, la scena in cui Amleto maltratta Ofelia, dolente per la morte del proprio padre, Polonio, e le consiglia il convento, qui viene dopo il suo dialogo tra comico e filosofico, col becchino che scava la fossa per lei.
Diventa un flashback che illumina le cause del suicidio di lei, e per Amleto una ulteriore ossessione di colpa, nonché spinta a quel suicidio simbolico che sembra essere il suo assassinio finale. Chi infatti gli ha dato la coppa di veleno, che nell’originale beve la madre? E dove il duello col fratello di Ofelia?
E’ la colpa disincarnata ad ucciderlo. Un granello di sabbia nell’occhio della mente.
Una ossessione, all’interno della quale gli altri – Polonio, Ofelia, la madre, lo zio, l’amico Orazio – sono ombre intercambiabili di una recita, e splendidamente recitati, con variazioni timbriche e gestuali, da Diletta Masetti e Matteo Ciccioli. Lo conferma l’episodio della recita, appunto.
Nel testo di Shakespeare gli attori recitano per ordine di Amleto un testo che assomigli al delitto dello zio, provocando furia in lui, e certezza dell’accusa in Amleto.
Qui no.
Amleto chiede allo zio se abbia mai recitato. Lo zio dice di sì. Era Cesare, ucciso da Bruto. Già questa sembra una anticipazione allucinata del compito di un Amleto-Bruto. Non solo. Sono poi veramente la madre e lo zio a recitare la scena, sempre incarnando le ossessioni di Amleto. Prima amoreggiano oscenamente sul catafalco. Poi il re assassinato – incarnato dallo zio – risorge come lo zio stesso incoronato da una regina madre oscenamente a quattro zampe. Amleto gira loro intorno, e sentenzia, “Una trappola per topi!”.
Ma è chiaro che non abbiamo più la realtà degli attori a provocare il re usurpatore, bensì una fantasia nell’occhio della mente di Amleto, di cui re e regina sono le ombre in scena, che poi, al tornar della luce, fuggono ridendo.

And so on.
E il pubblico, avvinto, in trance, si sveglia anch’esso alla luce dell’applauso che gli esce automatico e caloroso.
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Amleto. Un granello nell’occhio della mente – adattamento di Jared McNeill e Manuele Morgese dall’Amleto di W.Shakespeare – regia Jared McNeill – con Diletta Masetti, Manuele Morgese, Matteo Ciccioli – musiche di Béla Bartók – scene: Margutti, Morgese, McNeill – Attrezzeria e sartoria: Stella Iodice – Produzione: Teatro Zeta – Progetto GIOVANI PER I GIOVANI – Teatro Tor Bella Monaca di Roma dal 2 al 3.12.2025




