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La taccagneria astrale di Arpagone approda a Catania

Direttamente da Molière, il tirchio di proporzioni galattiche rivisitato in lingua siciliana e attualizzato. A Enrico Guarneri la missione di esplorarlo e impersonarlo.

Dall’8 al 23 novembre, dal palcoscenico del Teatro Abc di Catania si riavvolge il nastro del tempo, e arretrando di circa tre secoli, si giunge al diciassettesimo, l’epoca color oro per il classicismo teatrale di Francia e dei francesi. E francese era Molière, l’esponente più noto del teatro comico seicentesco e a lui apparteneva L’avare (L’avaro), l’originaria opera parigina datata 1668. L’avaro che non è solo un titolo, ma un aggettivo, una connotazione negativa e universale, che attraversa tradizione e modernità, classicismo e contemporaneità: la caratteristica distintiva del personaggio protagonista, il cui ruolo non poteva non essere affidato alla preziosa comicità di uno fra gli attori più virtuosi della scena siciliana: Enrico Guarneri.

Per chi conosce Guarneri, non è la prima volta che lo vediamo confrontarsi con la commediografia in stile Molière, rivisitata poi alla sua maniera, tutta siciliana e tutta da ridere, ed è quel che accadde, ad esempio, tempo fa, quando fece Argante de Il malato immaginario. In questi giorni, invece, lo vediamo alle prese con l’avaro Arpagone, che magistralmente interpretato diversi anni dopo dal precedente capolavoro molieriano, non ha potuto che confermare le già altissime premesse, soprattutto se l’impronta registica è indiscutibilmente la stessa: quella di Guglielmo Ferro.

Ferro, ancora una volta, non intende limitarsi a recuperare solamente le note spiritose dell’autore francese e piuttosto le congiunge al fare spassoso e all’abilità attoriale di Guarneri, trasferendo l’ambientazione in Sicilia e lasciando che prevalgano le espressioni dialettali e la cadenza tipicamente etnea che hanno come esito, inevitabilmente prevedibile, una vivace approvazione del pubblico che, più di una volta, applaude divertito. Il pubblico applaude innanzi a monologhi e dialoghi, individualità e coralità di francesismi appena accennati, storpiature e incongruenze linguistiche alternate ad un perfetto italiano, paradossi e contraddizioni, pronunce sbagliate, allusioni ed equivoci: esilaranti travisamenti e giri di parole, tanti quanti ne servono per sostenere anche loro, e dall’inizio alla fine, il gioco farsesco.

Una farsa che non è mai fine a sé stessa e che ha come obiettivo quello di svelare il secondo dei peccati capitali, il difetto fra i difetti: l’avarizia. La “peste degli uomini”, accanto a superbia, ira e invidia, lussuria, gola e accidia. Sette vizi per altrettante virtù, con le quali divergono manifestamente. Virtù schiacciate e ridotte ai minimi termini, in una società opportunista e profittatrice di cui Arpagone non è, in fondo, che un prototipo. Una farsa, inoltre, consegnata ad altri dieci interpreti al fianco di Guarneri/Arpagone, con il quale abitano la “sua” casa, costruita scenograficamente utilizzando elementi architettonici ed arredi antichi, ed antichi sono anche gli abiti che tutti i personaggi indossano.

E mentre un brano musicale vagamente popolare scandisce i più importanti momenti scenici, che, puntualizziamo, non si sviluppano di certo lungo cinque atti come l’originaria commedia, proprio la dimora di Arpagone diviene il luogo in cui si consuma tutta la sua spilorceria e la sua grettezza, la sua cupidigia e la sua ingordigia. Egli ha il pregio di possedere il più alto grado di avidità, tale da renderlo con tutti, indistintamente, un tirato pidocchioso, micragnoso e tutt’altro che generoso.

Un individuo padre e padrone, materialista ed egoista, la cui morbosa e opprimente inclinazione verso il “vile denaro” ha non poche ripercussioni su chiunque egli frequenti, figli e servitù compresi: i primi sacrificati in contratti di nozze combinati con degli “ottimi partiti” che hanno ormai un piede nella fossa (ma ciò che conta è che siano ricchi sfondati) e i secondi, mai stipendiati e debitamente sfruttati, costretti alla deferenza e vincolati all’obbedienza assoluta e alla privazione, praticamente a pane e acqua, o forse solo acqua. E come se non bastasse, quotidianamente minacciati e ricattati, ingiustamente appellati come “ladri” e “traditori”, perquisiti e interrogati, sotto torchio perché confessino di non aver rubato nulla dei suoi averi, trattenuti al centesimo: tesori preziosi e “accecanti”, gelosamente custoditi lontano da occhi indiscreti e da furti immaginari.

Insomma per un accumulatore seriale la cui fantasia scellerata e delirante viaggia con lo stesso passo di investimenti e tassi di interesse, la sorveglianza non è mai troppa. Arpagone è sospettoso e calcolatore, tanto diffidente e paranoico, quanto assillante e patologico, affezionato ai soldi come se fossero il suo stesso sangue: le viscere, il respiro, la vita. La vita tratteggiata con il linguaggio ossessivo di quattrini e valuta, di capitale e lingotti, di affari ed eredità, profitti, onore e disonore. E di spese, le spese “visibili e invisibili”, ma di queste Arpagone non vuole proprio saperne. Avere tutto, pagare poco, donare mai: un chiodo fisso inguaribile e un’ilarità assicurata.

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L’avaro da Molière– regia: Guglielmo Ferro – Interpreti: Enrico Guarneri – con: Rosario Marco Amato, Liborio Natali, Nadia De Luca, Emanuela Muni, Plinio Milazzo, Mario Opinato, Loredana Marino, Diana D’Amico, Gianni Fontanarosa, Ruggero Rizzuti – scene: Salvo Manciagli – costumi: Sartorina Pipi Palermo – direttore di scena: Salvo Patania – datore luci: Santi Rapisarda – sarta: Isabella Sturniolo – Catania – Teatro Abc (dall’8 al 23 novembre 2025)

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