Dalla nascita alla morte, in una vita mai felice, vediamo l’eterna stella abitare il suo mondo crudele
C’era una volta una bambina afroamericana, nata e cresciuta nel ghetto di Harlem, in una famiglia priva di amore e calore. La sua unica amica è la musica: quello che la porterà in cima al mondo, in spazi ancora preclusi a lei e al suo popolo dall’iniquità della segregazione. Questa è la storia di Billie Holiday, o Lady Day.
Una delle più grandi cantanti di tutti i tempi, tra anni trenta e cinquanta, Billie Holiday viene ricordata, oggi più che mai, come la rappresentante di una comunità marginalizzata e costretta a farsi da parte. Intrattenitori, ma mai protagonisti. Spettacoli, ma mai direttori. A raccontare la sua storia, presso il Teatro Greco, è Mariangela d’Abbraccio. Sola su un palco vuoto, illuminata dalla proiezione di testi e immagini, racconta tutto dal principio.
Lady Day (Billie Holiday) è un lungo e arrabbiato monologo, raccontato in prima persona dalla voce quasi scorporata della cantante. È come se quest’ultima parlasse attraverso il corpo dell’attrice, raccontando le sue vicende e i suoi pensieri dal profondo dell’aldilà, riguardando alle sue decisioni e ai suoi errori. Tramite quella voce, la Holiday presenta sé stessa come una vittima di un mondo crudele, condannata per le sue origini e la sua etnia a soffrire e lottare anche nel pieno della fama, ma non una spettatrice passiva. Le sue considerazioni sono coltellate che colpiscono al segno, piccole vendette personali, prese di coscienza amare e crudeli.
Billie Holiday nasce nel degrado di Harlem, tra povertà e violenza sociale e sessuale. Anche quando inizia a cantare è una fuga dalla realtà che la circonda, una ricerca di conforto, o anche solo una necessità: rispondere, in qualunque modo sia possibile. Anche da bambina d’Abbraccio la interpreta con freddezza, con due occhi troppo grandi per la sua testa che vedono e comprendono qualcosa che una bambina non dovrebbe capire. E così rimane da adulta, in un mondo che la applaude come stella del palco ma la odia, disprezza e sminuisce come donna nera. Un mondo a cui Lady Day non si piega, al quale non cede nulla, al diavolo anche la carriera.
Il che culmina nella performance, presso il Café Society del 1939, dell’eterna Strange Fruit, la canzone di denuncia dell’orrore dei linciaggi. Le esecuzioni sommarie degli afroamericani, per motivi futili o inesistenti, una pratica crudele che si manifesta tutt’oggi, si compivano frequentemente tramite impiccagione. I corpi della comunità di Lady Day diventano frutti, abbandonati dalla terra alle intemperie, il cui succo è sangue. La canzone che non doveva essere cantata, e che è diventata una catarsi lunga decenni.
A Lady Day ti appassioni in fretta. Tormentata da compagni abusivi, dipendente dalla cocaina, trattata come un pericolo per sé e per gli altri dalla comunità. Costretta a presentarsi come “Lady in Satin”, nella copertina del suo celeberrimo album del 1958, nonostante per sua stessa ammissione non sia affatto “satinata”. La narrazione di d’Abbraccio è accompagnata da due strumenti, che richiamano al jazz classico che rese eterna Lady Day. Mattia Niniano suona il pianoforte, Dario Piccioni il contrabbasso, e sono entrambi in sintonia fino alla fine. L’unico neo della performance è la mancanza di varietà, che rende i passaggi finali, che conducono passo passo alla fine della vita della Holiday, tesi e a volte futili.
La storia di Billie Holiday va immortalata, e un monologo semplice e sepolcrale è un modo efficace. La sua vita scorre completa, trattata con durezza e spietatezza, ma anche con il rispetto per l’artista e la donna che ha tanto affrontato e conquistato. Con un copione più snello, e quando possibile un’interprete nera, Lady Day (Billie Holiday) potrebbe diventare uno standard.
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Lady Day (Billie Holiday) di Maurizio de Giovanni – Mariangela d’Abbraccio – contrabbasso Dario Piccioni – pianoforte Mattia Niniano – regia Francesco Tavassi – produzione la Fabbrica dell’Attore centro di produzione teatrale – 4-9 novembre al teatro Greco





