Dal 21 ottobre alla Sala Umberto di Roma con “L’importanza di chiamarsi Ernesto”, l’attrice svela la sua Lady Bracknell
Non posso non ricordare, con una certa tenerezza, i miei anni giovanili, quando lessi per la prima volta L’importanza di chiamarsi Ernesto di Oscar Wilde. Rimasi immediatamente affascinato dalla sua genialità, dalla sua ironia tagliente, da quella grazia “dandy” che riesce a smascherare le ipocrisie sociali con leggerezza e intelligenza. Era ed è ancora una commedia che diverte e punge allo stesso tempo, in cui ogni battuta cela un riflesso di verità, ogni sorriso un piccolo scandalo beneducato.
Oggi, ritrovare questo capolavoro sul palcoscenico della Sala Umberto di Roma, dal 21 ottobre al 2 novembre con la regia di Geppy Gleijeses, è come tornare a casa: un ritorno a un mondo in cui la parola è eleganza e il paradosso diventa arte.
A guidarci in questo viaggio nell’universo brillante di Wilde è Lucia Poli, interprete di Lady Bracknell, figura simbolo di un’epoca e delle sue contraddizioni, che l’attrice restituisce con il suo consueto equilibrio tra ironia, misura e intelligenza scenica.
Un incontro con Lucia Poli per parlare di Wilde, del piacere della parola, e di come l’ironia possa essere ancora forse più che mai una forma di resistenza.
Lady Bracknell è una delle figure più memorabili del teatro di Wilde: autoritaria, ironica, snob e irresistibile. Qual è stato il suo primo pensiero quando ha affrontato questo personaggio?
Ho interpretato Lady Bracknell per la prima volta ormai venticinque anni fa, quando lo spettacolo fu allestito per la prima volta dalla compagnia di Geppy Gleijeses con la regia di Missiroli. Girammo per tre anni con grandissimo successo. Ricordo che affrontare quel ruolo fu un vero fuoco, un gioco divertentissimo, perché L’importanza di chiamarsi Ernesto è un classico moderno, potremmo dire il capostipite di una corrente teatrale che rompe la struttura tradizionale della commedia, anche quella boulevardière francese.
Wilde, rispetto ai suoi lavori precedenti come “Il ventaglio di Lady Windermere” o “Una donna senza importanza”, cambia completamente registro: in quelle opere c’erano ancora il realismo, i sentimenti, gli intrighi e le gelosie in cui lo spettatore poteva credere. Qui invece tutto questo scompare e resta soltanto la parola.
È una satira totale, paradossale, sull’aristocrazia e la ricca borghesia vittoriana, che Wilde demolisce non attraverso la storia ma destrutturandola, facendone un puro gioco linguistico. Lady Bracknell, per esempio, può cambiare la moda quando vuole; le tartine al cetriolo diventano l’argomento principale di un intero atto, tutto ruota intorno al tè delle cinque.
Se Giulietta dice “Che cos’è un nome? Se ti chiami Romeo o un altro nome, per me sei sempre tu”, qui accade il contrario: le due fanciulle si innamorano non della persona, ma del nome Ernest. Non dei sentimenti, ma del suono stesso della parola. Guendalina Fairfax, appena sente che il cugino ha un amico che si chiama Ernest, se ne innamora immediatamente, senza nemmeno averlo visto.
In questo testo contano solo le parole: è un gioco delizioso, attualissimo, un paradosso dietro l’altro. E Lady Bracknell, in tutto ciò, incarna la regina Vittoria, il massimo del bigottismo, del perbenismo, dell’apparenza senza sostanza. È un personaggio irresistibilmente comico, e credo che proprio in quest’opera Wilde anticipi Ionesco.
In che modo ha costruito la sua Lady Bracknell? È più caricatura o più ritratto realistico di una mentalità ancora attuale?
«Non deve essere né una caricatura né un ritratto realistico. Wilde lo dice chiaramente: gli attori non devono recitare in modo realistico, ma nemmeno farsesco. Devono essere spontanei, ma non naturalistici.
Io, che sono un’attrice molto curiosa, amo giocare con le parole — e qui, in questo testo, il gioco è tutto. Bisogna mantenere quella leggerezza intelligente che è tipica di Wilde, senza cadere nella parodia, ma anche senza credere troppo a ciò che il personaggio dice.
È un equilibrio sottile, molto sofisticato. Tutti i personaggi di Wilde, in fondo, sono dei dandy: eleganti, ironici, distaccati, eppure perfettamente consapevoli del loro artificio teatrale.»
La lingua di Wilde è un’arma affilata. Come si affronta, da attrice, una scrittura così precisa, dove ogni battuta è un colpo di fioretto?
Bisogna recitarla come se fosse la cosa più semplice del mondo, senza mai sottolineare troppo, altrimenti si cade nella gag, nella farsa. La crudeltà e l’ironia di Wilde funzionano proprio perché vengono dette con naturalezza, come se fossero la cosa più normale del mondo — ma dette da individui che normali non sono affatto.
Ecco la chiave: essere qualcosa di strutturalmente sofisticato, ma parlare con apparente semplicità. Mantenere sempre quel distacco elegante, lontano dal realismo borghese, perché i personaggi di Wilde appartengono a un’altra dimensione, più alta, più artificiosa, ma anche più vera nella loro assurdità.»
Lady Bracknell è spesso rappresentata come un “mostro sociale”, ma anche come una donna che difende l’ordine di un mondo fragile. Lei come la vede?
La vedo come una donna piena di contraddizioni, e proprio per questo la trovo affascinante. È cattiva, bisbetica, interessata solo al denaro — un’affarista che se ne infischia dei sentimenti e degli altri, preoccupata unicamente del decoro, dell’apparenza, della forma. È, insomma, una donna orrenda!
Eppure, al tempo stesso, è intelligente, spiritosa, acuta, geniale: capisce tutto. Questa doppiezza la rende irresistibile, perché è un personaggio negativo e positivo insieme. E forse è proprio questa ambiguità che me la fa amare.
Ha trovato dei punti di empatia o comprensione verso Lady Bracknell, o la considera una figura volutamente distante, quasi simbolica?
In questo testo non c’è mai empatia. Quando Shaw vide “L’importanza di chiamarsi Ernesto” disse che non gli aveva suscitato alcun sentimento di adesione, e quindi non gli piacque. Ma non aveva capito che non era quella la chiave.
Questo spettacolo non deve toccare il cuore, ma la mente. È un gioco intellettuale, non sentimentale. Deve passare attraverso l’intelligenza, non attraverso l’emozione. È come un duello di fioretto: non c’è empatia tra i contendenti, ma la brillantezza del colpo, la precisione, l’eleganza.
È un teatro divertente e giocoso, come una danza o un canto che non richiedono partecipazione “di pancia”, ma attenzione e piacere estetico. Penso al virtuosismo del Belcanto barocco o a quello di Rossini: pura raffinatezza, puro godimento della forma. In definitiva, le parole chiave sono due: il gioco e l’intelletto.
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L’importanza di chiamarsi Ernesto di Oscar Wilde – traduzione Masolino D’Amico – Regia di Geppy Gleijeses – con Lucia Poli, Giorgio Lupano, Maria Alberta Navello, Luigi Tabita, Giulia Paoletti, Bruno Crucitti, Gloria Sapio, Riccardo Feola – Costumi: Chiara Donato – Scene: Roberto Crea – Luci: Luigi Ascione – Sala Umberto di Roma dal 21 ottobre al 2 novembre 2025





