Dal sogno di libertà di Salvatores al disincanto di oggi: quando il cinema italiano racconta la fuga, la coscienza e la realtà che ci insegue
Nel 1991, inviato a Hollywood per i Tg della Rai a seguire la cerimonia degli Oscar, decisi di deviare per qualche giorno in Messico, a Puerto Escondido. Lì, l’amico Gabriele Salvatores stava girando ancora una volta con Diego Abatantuono Puerto Escondido, tratto dal romanzo di Pino Cacucci. Lo raggiunsi sul set e, salutandolo, gli dissi scherzando ma non troppo: «Sbrigati ad arrivare a Los Angeles, perché ti aspetta l’Oscar».
La frase di lancio che avevamo coniato per quel terzo film che seguivo come press movie per Salvatores era: “Un film dedicato a tutti coloro che fuggono”. Sembra scritta oggi, e invece era il 1991: l’anno in cui Mediterraneo vinse l’Oscar come miglior film straniero, battendo a sorpresa il favoritissimo Lanterne rosse del cinese Zhang Yimou, con la straordinaria Gong Li.
Il sogno di libertà contro ogni guerra, quello di un gruppo di soldati italiani stremati dai combattimenti dell’ultima guerra mondiale, approdati su un’isola greca baciata dal sole e dal mare, lontana dal fragore dei cannoni, conquistò anche i giurati dell’Academy. Quel film, che gridava contro la disillusione politica e celebrava l’evasione come atto di sopravvivenza, compie trentaquattro anni ma sembra scritto ieri.
Interpretato da Diego Abatantuono, Claudio Bisio, Claudio Bigagli e Giuseppe Cederna, Antonio Catania, Mediterraneo non fu solo un grande successo cinematografico, ma anche una scelta ideologica. Oltre all’Oscar e all’affermazione sui principali mercati internazionali, ottenne il Golden Globe per la colonna sonora e il David di Donatello come miglior film, miglior montaggio e miglior sonoro nel 1991.
Nato dalla penna di Renzo Biasion con il romanzo Sagapò, Mediterraneo concludeva un’ideale trilogia della fuga firmata da Salvatores, iniziata con Marrakesh Express (1989) e proseguita con Turné (1990), quasi sempre con lo stesso affiatato gruppo di interpreti.
Il valore dell’autoesilio come fuga dalla sofferenza, dalle paure, dalle incertezze e dalle ingiustizie soprattutto politiche attraversa Mediterraneo ieri come oggi. Nel 1941, nel pieno della disastrosa campagna dell’Italia fascista in Grecia, otto soldati del Regio Esercito approdano su un’isola dell’Egeo, ignari degli sviluppi di un conflitto mondiale, delle sconfitte e dei tradimenti militari e politici che ne seguiranno. Una guerra senza senso che, nel film di Gabriele Salvatores, diventa solo lo sfondo lontano di un’esperienza profondamente umana.
In quell’angolo sospeso tra cielo e mare, i protagonisti ritrovano sé stessi, liberi finalmente dall’odio, dal fucile e dall’elmetto. È un ritorno alla vita, alla tenerezza, alla possibilità dell’amore. Il più giovane di loro, l’attendente Antonio Farina interpretato da un delicatissimo Giuseppe Cederna incarna perfettamente questo riscatto umano.
Si innamora di Vassilissa, la “puta” del piccolo villaggio di pescatori, e con lei sceglie di restare: si sposano, aprono una piccola trattoria e vivono sereni, lontani da tutto. Sono loro, quei due giovani che si scelgono nel silenzio del mare, i veri eroi di quel Mediterraneo baciato dall’Oscar. Vassilissa aveva il volto e la grazia della giovane attrice greca Vana Barba.
Oggi, in un viaggio nel tempo degno di Asimov, Vassilissa e Antonio Farina si sono ritrovati davvero.
Complice la tournée teatrale di Cederna ad Atene con Odissea di Sergio Maifredi, dopo trentatré anni i due si sono rincontrati. «Quando ci siamo visti — ha raccontato Cederna — ci siamo commossi. Lei è sempre bellissima, una vera leonessa, e la sua voce è la stessa di allora. Mi ha chiesto notizie di Diego Abatantuono e di Claudio Bigagli. Oggi si occupa di business, ma ogni tanto recita ancora in teatro. Secondo lei la Grecia è il mio karma».
E forse ha ragione. Forse dovremmo tornare tutti, almeno una volta, su quell’isola di pace che ha dato rifugio a un sogno. Dedicare una piazza di Kastellorizo a Mediterraneo sarebbe un gesto simbolico, ma come ha ricordato Vana Barba, «tutta l’isola è già un monumento al film».
E in questa rinnovata necessità di ritrovare nel nostro cinema messaggi sociali e, giustamente, anche politici, c’è spazio anche per Asini che volano – Elogio degli italiani tra cinema e realtà, il nuovo libro di Giovanni Floris. Un volume che, come spiega l’autore, vuole essere il ritratto della nostra “media età”, letta attraverso la lente ironica — e spesso amara — dei “cinepanettoni”, quella serie miliardaria di commedie che, nell’Italia del post boom economico, facevano sorridere più che riflettere.
Erano gli anni di Merry Christmas, con un Cristian De Sica alle prese con tre mogli e una società illusa che il “fedifrafo” potesse sempre cavarsela, come nel falso benessere di un Paese che preferiva ridere piuttosto che interrogarsi.Quel sessismo commerciale, abilmente travestito da comicità leggera, era in fondo un espediente perfetto per riempire le sale e anestetizzare le coscienze.
Oggi, osserva Floris, quei cinepanettoni girati tra l’Egitto, l’India e la sempre assolata Miami non si fanno più. E la ragione è semplice e disarmante: «la fantasia — scrive — è diventata la realtà della politica».





