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“Mark e Giulietta”: una ballata per chitarra, tra sfighe e Shakespeare

Una breve analisi del capolavoro indimenticato dei Dire Straits, alla vigilia dei 45 anni dalla sua pubblicazione

C’era una volta – perché in fondo anche le canzoni possono cominciare così – un chitarrista un po’ stanco, con la voce da fumo e le dita che sfioravano corde (ma sapevano anche sfogliare libri). Si chiamava Mark Knopfler: inglese, ma di quelli che sembrano americani quando suonano, scozzesi quando bevono, e Dire Straits di appartenenza, quando trionfano sul palco.

I Dire Straits nel 1980 – © Radio Capital

Mark, a dire il vero, non voleva scrivere una canzone, è stata la canzone a venirgli così, da dentro. Non era ispirazione insomma: era un’incazzatura.

Lei, Giulietta, (accontentiamoci dello pseudonimo letterario per il momento), era una ragazza con gli occhi grandi e una attitudine tutta speciale per le scelte sbagliate (gusti, acconciature, outfits slabbrati, ragazzi).

Lui, invece (Mark/Romeo), si ostinava a recarle serenate elettriche con la sua chitarra pulita, senza plettro, proprio come si carezza un gatto che ha paura. Lei un giorno se ne andò con un altro: più glamour, più giovane (magari, quello sì, un po’ più pettinato di Mark).

E fu così che nacque Romeo and Juliet (inserita nel celebre album Making Movies dell’ottobre 1980, che quest’anno spegne quindi 45 candeline), una canzone romantica per modo di dire.

Che sembra d’amore, ma è di disillusione.

Che sembra Shakespeare, ma è solo periferia londinese, in un pomeriggio di pioggia, quando l’amore ti lascia un biglietto (oppure una laconica telefonata, gli storici sul punto non sono d’accordo) e scappa in taxi. Romeo – cioè Mark – si illudeva anche negli ultimi, disperati appelli che “appartenevano l’uno all’altra”. Lei, invece, non rispondeva più ai messaggi.

Anni dopo si seppe che “Giulietta” era Holly Vincent, una cantante punk. Una che, a occhio, di balletti a Verona non ne voleva sapere.

Knopfler, con la grazia dei veri malinconici, mise tutto nella musica. Ma senza farne un dramma. O meglio: facendone un dramma in tre accordi o poco più. “When you can fall for chains of silver, you can fall for chains of gold…” che potremmo tradurre così, un po’ liberamente: “ti ho dato tutto, ma tu preferivi le catene del centro commerciale”.

Sebbene ci sia un riferimento alla famosa “scena del balcone”, l’atteggiamento di Romeo è di malinconia e non di disperazione, e riflette una delusione più terrena che tragica.

La chitarra entra come un rimorso e la voce racconta, non canta: come se Mark stesse ancora spiegando a un amico cosa è andato storto.

Ma l’amico siamo noi, colpevoli e spettatori, davanti a questa tragedia tenera da jukebox.

Non è solo amore non corrisposto. È l’idea che i sentimenti abbiano bisogno di scenografie migliori, e invece finiscono per fare la comparsa nelle vite degli altri. È Romeo che non muore per amore, ma per messaggio “non visualizzato” (oggi diremmo così): è lui che la bacia ancora attraverso i versi di un poema (All I do is kiss you through the bars of a rhyme). E se non bastasse c’è anche un rimando a un brano importante, quel Somewhere di Bernestein che scorta il film West Side Story, una rivisitazione della tragedia di Romeo e Giulietta, come a dire che il tema dello struggimento per amore è sempre eterno.

Holly Vincent si esibisce a Londra in uno scatto del 1977

E allora, bravo Mark. Per averci fatto sentire tutti un po’ più Shakespeare e un po’ meno scemi quando qualcuno ci spezza il cuore. E bravo anche a non aver chiamato la canzone Holly, vattene al diavolo, che sarebbe stata più onesta, ma molto meno eterna.

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Romeo and Juliet – dall’album Making Movies – 1995 – Dire Straits – prodotto da Jimmy Iovine e Mark KnopflerVertigo Records

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