Alla prova di Orson Welles strega il Teatro Vascello con la disperata ricerca dell’ignoto grazie alla versione di Elio De Capitani
A riportare sul palco l’opera che Welles scrisse, diresse e interpretò negli anni Cinquanta, è oggi Elio De Capitani con la prestigiosa compagnia del Teatro dell’Elfo. Questa versione ha infatti debuttato nel 2022 proprio al Teatro dell’Elfo Puccini di Milano, dopo essere stata concepita e provata durante il periodo della pandemia.

L’intento di Welles era fondere attraverso l’uso del blank verse due opere fondamentali della letteratura: la prosa di Melville con la grandezza dei versi shakespeariani e ottenere un’opera che raggiungesse profondità concettuali ed emotive abissali. Un Moby Dick in versi, come chiedere di meglio. Il lavoro sulla parola che il grande regista fece fu qualcosa di straordinario, che merita di essere maggiormente studiato e diffuso dalle compagnie teatrali capaci di trasmetterne il valore artistico.
Si dispiega la potenza dell’infinito, di cui è allegoria il capodoglio bianco. Uno spettacolo suggestivo, potente, visionario che Elio De Capitani restituisce in tutta la sua eloquente bellezza dalla natura spietata e veritiera.
Welles ricorse allo stratagemma di una compagnia teatrale shakespeariana che mette in scena per la prima volta Moby Dick con una sensibilità vicina a quella del Bardo. Un’operazione meta teatrale che squarcia la quarta parete, che permette di esplicitare un’estetica basata non sulla liricità, ma sull’aderenza al vero dell’opera d’arte. Un vero metafisico, che avvicina alla realtà e ne coglie l’essenza profonda.
Elio De Capitani irrompe in scena con fare autoritario gettandosi presto tra i tavoli, dividendoli in due file scomposte. Rabbioso come il personaggio che va a interpretare, Achab. Un dialogo del Re Lear con l’attrice che avrebbe dovuto impersonare Cordelia e poi si torna al Moby Dick. De Capitani quindi è l’impresario teatrale che interpreta Re Lear e Achab, ma anche Padre Mapple, il cui sermone ha una rilevanza contenutistica fondamentale.
Un cast prevalentemente maschile e
due donne in scena: una narrerà dei passaggi di incisiva intensità, l’altra interpreterà il giovane Pip. Quest’ultimo personaggio rimanda ai buffoni shakespeariani o a creature come Ariel, portando nello spettacolo una verve umoristica intrisa di devastante malinconia e profonda leggerezza.
Moby Dick alla prova rappresenta l’aspirazione all’infinito, il desiderio di conoscere l’ignoto, fino al punto di profanarne la sacralità sfidando il divino stesso.
Si inizia con la compagnia teatrale (quella fittizia) che si organizza per mettere in scena la propria versione di Moby Dick.
Una scenografia spoglia: tre scale gigantesche, tavoli di ferro, oggetti di scena basici.
Il pubblico è chiamato a immaginare, a supplire con la fantasia ai limiti del contingente: “Rimediate coi vostri pensieri alle nostre imperfezioni” dicono citando Shakespeare.
La visione spettatoriale si apre a un infinito che nasce dal limite, dalla siepe leopardiana.
Il ruolo della musica, composta da Mario Arcari e suonata dal vivo, è fondamentale. Gli attori in alcuni momenti infatti cantano, come in un musical, e suonano strumenti musicali. È un equipaggio unito da un ideale e la musica con la sua forza trascinante esprime questo senso di unità. Echeggia la forza di opere musicali come Les Misérables o perfino la bellezza delle musiche e delle scene collettive di alcuni film d’animazione Disney.
Dalla collettività della ciurma emergono con forza alcuni personaggi. In primis
Achab, conflittuale, alla disperata ricerca di vendetta, ma soprattutto di affermazione del proprio Sé rispetto all’autorità metafisica del divino e dell’ignoto. Un atto di tracotanza e iubris che incurante trascinerà con sé l’intero equipaggio in una sfida assurda contro il Creato.
Seduto come su un trono, speculare a Lear, domina la scena, interpretato appunto da Elio De Capitani.
Crepe quelle dell’animo di Achab che rimandano a Kurtz di Cuore di tenebra di Conrad e al Marlon Brando di Apocalypse Now.
Un personaggio oscuro certamente Achab, ma mai banalizzato, che mostra i suoi momenti di umanità e ruvida dolcezza, come nel suo elogio degli occhi, lo specchio magico dell’empatia.
Ismaele (Angelo Di Genio) è il narratore ed unico superstite, il suo punto di vista guida lo spettatore. Come tutto l’equipaggio, si lascia sedurre e fomentare anche lui dalla visione conquistatrice di Achab. Scoprirà che questo sogno di dominio implica un prezzo amaro.
Starbuck (Marco Bonadei), il primo ufficiale del Pequod, è invece l’unico a entrare in aperto conflitto con Achab, a dubitare della sua morale e pone il dilemma della legittimità di questa impresa colossale contro Moby Dick.
Come anticipato ci sono due donne in scena. A Cristiana Crippa, tra i fondatori dell’Elfo, è affidato tra i vari passaggi il racconto dei capodogli cuccioli con le loro mamme, estratto dal romanzo di Melville stesso. “Dicono che spesso, da che più feroce e spietata
si è fatta la caccia, le balene in enormi branchi
solchino gli oceani per darsi l’un l’altra protezione
e assistenza [..]”. Un pensiero che riprende quello di Starbuck e contempla la crudeltà e ingiustizia dell’industria basata sulla caccia alle balene.
Giulia Viana è invece prima Cordelia e poi Pip, giovane fanciullo che in seguito a un incidente in mare ha perso la ragione. Il suo ruolo è analogo al fool shakespeariano, come il Buffone di Re Lear, ma ha qualcosa anche dell’innocente leggerezza e del dolce candore di Ariel de La Tempesta
Moby Dick rappresenta l’immagine dell’inafferrabile,
il fantasma della vita, nonché la morte stessa e la natura indifferente alla sofferenza umana.
Animale e allegoria, soggetto e proiezione. Starbuck chiede chiaramente in un momento di contrasto con Achab che colpa ha mai quella povera bestia di aver seguito il suo istinto di difesa e il brano dei capodogli cuccioli tratto proprio dal romanzo non fa che accentuare questa istanza di giustizia e tutela della natura dalla tirannia e violenza umana.
Dunque Il romanzo di Melville rifletteva anche sull’innocenza del capodoglio, una povera bestia che ha agito per istinto e difesa, condannata di fatto per il suo solo atto di nascita e per l’affermazione di una volontà di vivere.
Dominano la scena colori grigi e scuri e, nel momento in cui si vuole evidenziare il discorso di un personaggio si adopera l’occhio di bue, le luci si spengono e ne rimane solo una che taglia l’atmosfera illuminando il personaggio in questione.
Magistralmente tradotto per l’Elfo dalla poetessa Cristina Viti, Moby Dick alla prova è un trionfo artistico.
L’allestimento, le interpretazioni, gli effetti di luce, l’uso movimentato della scenografia. Tutto è impeccabile, volto a proiettare lo spettatore in un’esperienza del sublime e del tragico.

Un finale catartico, dove l’immenso telo che faceva da vela si trasforma prima nella tempesta e poi nel capodoglio bianco, mosso dagli attori stessi nascosti nelle sue pieghe, travolgendo e risucchiando con il suo movimento devastante tutti gli altri interpreti in scena. Il sipario cala sull’urgenza esistenziale di un viaggio verso le terre dell’ignoto, un viaggio che però intrapreso senza rispetto della natura e del sacro non potrà che portare a esiti disastrosi e a una fine tragica.
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Moby Dick alla prova di Orson Welles – adattato prevalentemente in versi sciolti dal romanzo di Herman Melville – traduzione: Cristina Viti – uno spettacolo di Elio De Capitani – con: Elio De Capitani – e Cristina Crippa, Angelo Di Genio, Marco Bonadei, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Massimo Somaglino, Michele Costabile, Giulia Viana, Vincenzo Zampa, Mario Arcaricostumi Ferdinando Bruni – musiche dal vivo: Mario Arcari, direzione del coro: Francesca Breschi – maschere: Marco Bonadei – luci: Michele Ceglia, suono: Gianfranco Turco – coproduzione Teatro dell’Elfo e Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale – Teatro Vascello dall’11 al 16 marzo 2025