Danze d’anima sull’abisso del sottosuolo
Il testo messo in scena di recente dal duo Toscanelli-Foti, Il Natale di Harry, di Steven Berkoff, è un testo malizioso, una specie di dostoevskiano uomo del sottosuolo in minore, apparentemente zuccheroso, che agita punture di spillo tra le pieghe da lenzuolo dell’animuccia di un borghese piccolo piccolo, un bisbetico solitario un po’ nevrotico, un po’ narcisista ed egoista, un po’ vigliacchetto. Un mai uscito di casa, attaccato al soffocante nido materno, pur vivendo apparentemente indipendente.
Il Natale, l’ipocrita festa dei tutti buoni, il borghese o americano, come lo si voglia vedere, mito buonista della coralità solidale, amicale o di famiglia che sia.
Il Natale. Anche la regressione ad una infanzia immaginaria in cui tutti ti pensano.
Il Natale. L’essere come gli altri, anche quando si bestemmia apparentemente contro, per una supposta originalità anticonformista.
E dunque una festa dove essere diversi si amplifica nella condanna dell’esclusione.
Un famoso terapeuta, D. Winnicott, distingueva tra solitudine e solitarietà, tra uno star soli subìto come esclusione che ti svuota, ed uno star soli come scelta di scegliersi, dove l’incontro con gli altri non è un bisogno, ma un libero piacere.
Ma Harry, pur declamando la scelta, è prigioniero e frustrato nella propria obbligata solitudine.
Scisso in due voci, si aggira così come un piccolo uomo del sottosuolo tra una altalena continua di discorsi opposti, tra autoattacco, sprone, falsa autoassoluzione e tracotante sicurezza.
Appende però sintomaticamente ad un ramo natalizio bigliettini d’auguri invecchiati, come a voler esibire al mondo che ancora lo si pensa. E svelando così irrimediabilmente nel sintomo la sua non libertà dall’occhio esterno.
Un tempo, un tempo. Un tempo scambiava auguri con i colleghi. E’ dunque in pensione?
Non sente più né colleghi né amici, comunque, e neanche la sua ex, Clara, la storia per lui più importante, ma durata in realtà solo sei mesi.
Ma si diceva. Il tormento, che da una apparente banalità, cresce lentamente a tragedia, si esprime per contrari attraverso due voci. Apparentemente la sua falsa coscienza ed una autocoscienza critica, un super-io incalzante, che lo spinge a reagire, a riflettere, a modificarsi ed uscire da sé.
Non si deve per questa voce né autocriticare con occhio sociale, né rotolare nella paura e nel culto vittimistico della propria sofferenza. Deve analizzare gli errori del proprio comportamento, e modificarsi. Così lo incalza a riconoscere il suo bisogno degli altri, e a vincere il timore di provare a farsi risentire da loro: la ex, gli amici.
Ecco quello che devi chiarirti. Se ci riesci allora vorrà dire che sarai ad un passo dal risolvere tutto il resto, la sofferenza che ti paralizza ogni sentimento. Liberati dalla sofferenza, e ricomincerai a respirare .. cerca di capire perché sei solo .. te lo devi chiedere in ginocchio .. Eri talmente impegnato col tuo dolore che ti sei dimenticato del mondo .. un’agonia da quattro soldi. Chiedi, telefoni ? Ma solo perché mosso dal dolore, mai dal piacere.
Reagire, avere coraggio.
E lui – agitandosi, renitendo, recalcitrando, tentando di sfuggire rifugiandosi nella TV o in patetiche soffocanti e comiche telefonate alla anziana madre – lui alla fine obbedisce a questo imperativo interiore.
Telefona, agli amici, alla ex.
E questo però diventa l’inizio del tracollo, il cozzo del Titanic contro il ghiacciaio che si voleva denegare, e Harry lentamente, e poi sempre più convulso, si spezza in due, e si inabissa, implode, affonda nella propria pulsione di morte, tra montagne di sonnifero ed alcool.
Perché gli amici sono formali e distanti, e hanno famiglia, e la sua ex, Clara, gli rimanda una memoria del loro rapporto fatta di litigi continui, dove lui era quello che non la capiva e non sapeva relazionarsi. Le parole di lei distorcono la memoria in un inferno, e lui reagisce con rabbia disperata.
Ma quindi? Non sa relazionarsi, pensare e vedere gli altri, ma solo se stesso? Fugge il mondo?
Perché?
E’ preda di un narcisismo a-relazionale, con risvolti da vittimismo da palcoscenico, o c’è una radice più profonda di sofferenza che lo requisisce prima che possa rendersi abile alla relazione, che lo fa fuggire dalla relazione?
La voce inizialmente sembra benevola, e adombrare una sofferenza non colpevole, e dunque una possibilità di guarigione. Tuttavia c’è un tratto di ambivalenza e contraddizione, dove la spinta al coraggio diventa psicotica autodistruttività narcisistica.
Avere il coraggio di farla finita. Uscire da un mondo colpevole di non corrispondermi.
”Ti stai uccidendo goccia a goccia […] E perché invece non mandare giù l’intera bottiglietta, e al diavolo tutto in un colpo solo. Perché trascinarsi per tutto un altro anno. Non morire poco per volta. Stai morendo dissanguato, lentamente. E allora dai, una spintarella. Mamma ? Capirà. Lo dice sempre anche lei che devi vivere la tua vita”
Berkoff adombra, fa accadere. Non spiega. Esibisce il lento scivolare nel baratro.
La crocefissione d’anima silente di uno di noi, un tra i molti, un uomo qualunque, la cui tragedia non è perciò meno tragica o universale. Un noi in cui difficile non rispecchiarsi almeno in parte.
Il lento scivolare nel baratro, agitandosi nel patetico divincolio dell’anguilla, quando ormai arpionata si divincola in un illusorio sospiro di libertà.
E questo, con virtuosistica abilità e sacrificale dispendio di sé, mimico, vocale gestuale, danza di fronte a noi Toscanelli, nel tango affranto di un eros denegato e rincorso, nel cabaret di un teatro dei pupi del sentimento offeso, negato, cercato.
Così si muove in scena, tra divano e telefono, tra pulsione tremito e retromarcia, tra beffardo denegare, ed improvvisi urli di cedimento, sempre più spesso crollando, anche fisicamente, a terra, ed in disperazione.
E ogni tanto (una splendida idea di regia) scompare dietro un separé, da cui fa sporgere solo le mani, che come un mimo, un teatro dei pupi ventriloquo, danno vita al dialogo delle due voci, giustamente lui assente, per pudore, e per dare risalto al teatro d’anima, con tenerezza comica.
La scena gioca tutto in bianco e nero, con icastica semplificazione registica, così che lui possa esplodere in bianco (come inizialmente è vestito), il bianco della falsa ingenuità, simboleggiata già ad apertura, quando irrompe danzante in scena con appese comicamente una nuvola di scatole regalo, e biglietti in bocca, come sovrastato dal rituale natalizio, ma subito buttando e disseminando a terra. E un bianco che si fa lucore di sogno, quando mirati controluce ne isolano il volto tentennante e afflitto, nel buio.
E il bianco che si trasforma in tragedia sacrificale, in crocefissione psicotica, prima di virare al nero quando, dopo essere crollato a terra nella desolazione
Il mio vuoto da offrire.. è tutto qui .. Cristo !! Aiutami !!
ricompare appiccicato alla parete nera si sfondo, ora con una specie di grembiale ospedaliero, per poi crollare ginocchioni, denudandosi il torso, e poi abbattendosi a capo reclino.
Ora, al ritorno in scena, veste di nero, come in un lutto post crocefissione.
E ancora si agita tra negazioni beffarde, implorazioni, tentativi.
Ma man mano che va sempre più chiaramente fallendo, aumenta il ritmo delle esplosioni implosioni.
Bella per esempio l’ultima esplosione di bianco quando, svuotando uno scatolone, butta all’aria, come una nevicata, una manciata di palline di polistirolo bianche (l’imballaggio di un regalo), attuando la gelida e poetica neve del Natale, che diventa solo gelo e falsità di plastica, resa ancora più penetrante quando, camminandovi sopra, come sulla devastazione della sua anima, le fa fastidiosamante scrocchiare, come graffi sul cuore.
Il polistirolo sul pavimento, il sogno gettato a terra.
Il pavimento.
Sempre meno Harry-Toscanelli si coccola, con minuetti di tenerezza e mimo, e sempre più finisce a terra, e rotolarsi e strisciare, man mano che inghiotte pillole per dimenticare e dormire, ma in realtà sempre più chiaramente per morire.
Ormai striscia verso il telefono sul tavolo, senza riuscire a raggiungerlo, e naufraga in risate isteriche e disperate, mimando impossibili fantasie di tenero eros con la sua ex.
E protendendo davanti a sé una bambola, mima il bacio. Bambino regredito al gioco della felicità.
Poi smuore.
“Stai scivolando via. Non andartene. E buio, freddo. Dove siete?”
Lui svanisce, le luci calano, l’ombra si dilata silenziosamente in noi, accanto allo stupore della super performance che ci ha invaso, con il suo monologo psicofisico di quasi due ore.
E si alza una delle tante musiche che sapientemente accompagnano ed amplificano i momenti culminanti.
Il pubblico esplode con meritato calore.
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Il natale di Harry, di Steven Berkoff – regia Antonino Foti – con Mauro Toscanelli – Disegno luci Gloria Mancuso – Tecnico luci/audio Sabrina Fasanella – Compagnia/produzione Melanchòlia Teatro Aps – Teatrosophia Dal 19 al 22 gennaio 2025
Foto di ©Grazia Menna