Molti specchi e ambigue gabbie

L’inferno è la tua storia

Un lavoro interessante, anche se (per stessa ammissione del regista) ancora in fieri, quello visto al Teatro Off Studio(Roma,22 novembre 2024) Vuoto dentro scritto e diretto da Massimiliano Frateschi. In scena, con i suoi allievi della SetStudio Academy c’era il primo episodio, Bunker, di quella che dovrà diventare nelle intenzioni una trilogia (con i futuri episodi Discoteca  e Spiaggia).

L’impianto è vagamente distopico simbolico, pur essendo sua ferma intenzione radiografare la realtà della generazione del presente.

L’idea infatti è quella di una quarantena militare misteriosamente imposta, per sei mesi, che spinge un gruppo di giovani a rinchiudersi in un garage, con cibo e musica. Chi restasse fuori sarebbe a rischio morte. Il secondo episodio sarebbe di liberazione, ed il terzo ambientato nella post apocalisse dei sopravvissuti.

Non è una tematica nuova in generale,  ma soprattutto non lo è per il regista e drammaturgo, il cui esordio (La gabbia, 2019) era un testo claustrofobico, che immaginava due forse psicotici rinchiusi nella stessa cella a viversi ansie e tormenti, in un contesto vago che, come notava Susanna Battisti, sembra suggerire i superstiti di un cataclisma atomico. Ma il male è dentro o fuori? In La gabbia Max  diceva

                  “La vera gabbia non è quella qui fuori ma quella che hai dentro!”

Diversamente, in Vuoto dentro sembra rispondere una ragazza a uno del gruppo, che le chiede perché siano chiusi lì dentro

                                per proteggerci  dai cattivi che ci sono fuori

Ma non è così semplice. Quello di loro che sembra il più pacato e distaccato, nerd allampanato e ben vestito, spesso appartato a giocare a scacchi con partner di turno, ad un tavolo a margine scena, come un terzo occhio razionale, fa in realtà una radiografia diversa della situazione

            E poi lui cade .. smette di respirare .. Anch’io resto lì, senza battere ciglio .. 

           Lo guardo fisso negli occhi spalancati, e mi sento morire dentro .. 

          Sarebbe stato molto più semplice per me smettere di respirare, di colpo 

          come ha fatto lui ..  per me  è meglio morire che avere sensi di colpa. 

          Noi siamo una generazione difficile, avvolti dal silenzio delle troppe parole, 

          e dalle promesse mai mantenute .. cresciuta con l’ottimismo della Walt Disney, 

          dove i buoni vincono sempre

Poi parla del duro risveglio alla realtà dal mondo infantile delle promesse di felicità. Dove chi non regge la caduta dei valori e delle promesse, finisce a terra. Una generazione che è stordita dall’eccesso di stimoli dei social, dove tutto sembra falsamente raggiungibile, e scegliere angosciante, nella paralisi del troppo.

E pure una generazione che mantiene la tendenza a sognare.

Come dice la canzone di Kid Cudi che risuona all’inizio, Angel, And I’m so lost in a dream. Perso, appunto. 

E’ dunque una capacità di sognare che cura, o una fuga dalla realtà?

Quello che vediamo infatti non è assolutamente un mondo protetto dai cattivi fuori, ma una gabbia di scatenati tormenti animali, dove la psiche si fa tremore, memoria che non passa, crepa interiore. Come in Gabbia, la vera gabbia è quella che hanno dentro. 

Non a caso la metafora base, veicolata da uno spazio immersivo, dove il pubblico è sparpagliato in una stanza, ai margini di una scena centrale caotica e policentrica, la metafora di base è il caos, un caos che non si redime ma implode. Lo spettacolo si apre e chiude con la stessa scena, con tutti nella penombra, scatenati a terra, strisciando, torcendosi, gattonando, in un delirio di versi animali: ululati, versi acuti da scimmie, ragli asinini, versi di uccelli.

Allora la parte centrale, dove succedono cose, interazioni, relazioni, discorsi, sembra l’epifania dell’inferno, interiore e delle relazioni, come è nell’inferno dantesco, dove i dannati interrogati si aprono a confessare il dolore o la rabbia, per poi ricadere nel proprio tormento, nella loro torsione animale.

La scena policentrica aiuta ad essere invasi. 

E’ prevalentemente a scena centrale, dove avvengono gli scatenamenti, ma ha poi due poli principali: il tavolo, che è sia la calma degli scacchi che l’altare di riflessioni e confessioni; e l’angolo un po’ nascosto dietro una colonna, dove si svolgono momenti più segreti e istintuali, dalla conta del cibo rimasto, a scene di gelosia, a comiche sui preservativi.

Qua e là poi degli specchi moltiplicano le immagini. 

Così uno dietro la colonna, per sbirciare ciò che non vedi. Così uno ad un angolo, dove uno dei maschi, in nero, uno di quelli aggressivi, scarica le proprie emozioni in un immaginario boxare nel vuoto, dove lo specchio sembra, nell’angolo, appartati, il puncing ball dell’anima propria.

In mezzo al caos, tra balli esorcistici del disagio e mezze confessioni ed interazioni, si muove l’idiota dostoevskiano, un disabile in manto rosso, che esprime emozioni infantili e primordiali, e che anelando irrealisticamente alla ripetizione di un impossibile compleanno con la torta della mamma dà il gancio per la confessione-ricordo della sorella, uno squarcio di luce su una delle tante radici di quel disagio che non passa, di quella prigione della memoria di cui il garage è metafora.

Parla  di un padre terribile, che andato in rovina per abuso di cocaina, avrebbe poi anche ucciso la moglie – la loro madre – con una overdose di anti depressivi.

Dunque, per il povero disabile, niente torta e niente mamma.

E altre cose accadono. 

Per esempio il gioco del risico, proposto dal nerd per socializzare, ma che in realtà è la metafora di un  mondo dove socializzare è guerra. E la scelta dei paesi. E simbolica, ed  attualizzata … Ucraina, Russia, Palestina, Israele. 

Chi vuol essere cosa? Cioè vittima o carnefice. 

Non a caso finisce con la somministrazione a tutti di pasticche di ecstasy, con il corollario, dopo balli scatenati, di uno di loro che a terra, a occhi arrovesciati, si contorce in convulsioni epilettiche pre mortem, con bava alla bocca. 

Bravo l’attore in questa parte, lo stesso che prima boxxava tormenti allo specchio.

E toccante la scena in cui il nerd gli si avvicina chinandosi a mano tesa, come in un inutile patetico tentativo di salvataggio, la bocca aperta ad un urlo muto di stupore ed impotenza. 

Ed anche qui, direi la materializzazione metaforica del discorso iniziale

            E poi lui cade .. smette di respirare .. Anch’io resto lì, senza battere ciglio .. 

           Lo guardo fisso negli occhi spalancati, e mi sento morire dentro .. 

          Sarebbe stato molto più semplice per me smettere di respirare, di colpo 

          come ha fatto lui ..  per me  è meglio morire che avere sensi di colpa

che anticipa la circolarità conclusiva del ritorno al delirio animale.

In definitiva, se il discorso sulla radice dei tormenti generazionali sembra forse un po’ semplicistico, il performing attualizza più in profondità un concerto di tormenti, impressivamente convincente.

Ed il pubblico risponde di dovere, con calorosi applausi, mentre dai corpi a terra si forma nella penombra una resurrezione di corpi in piedi, in fila, degli attori pronti a ricevere il giudizio.

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Vuoto dentro / Primo studio : bunker – regia Massimiliano Frateschi – con: Francesco Chiarello, Alessandra Corbo, Alessia Della Vedova, Danilo Ditolve, Samuele D’Andria, Leonardo Grisanti, Daniele Pensa, Virginia Ricci – direzione artistica Oriana Celentano – Roma, Teatro Off Studio, 22 novembre 2024