Ombre luci e schegge d’amore

Sofferte danze d’anima nella famiglia Leopardi

Una danza intensa di luci ombre e passioni quella che Giorgia Filanti ordisce, con sapiente inventiva visiva e regia d’attori, intorno al nuovo apporto leopardiano di Antonio Mocciola. Ma prima di approfondire in tal senso, parliamo del testo, data la delicatezza culturale del tema.

Francesco Giannotti e Lorenzo Mereu

Uno dei meriti di Mocciola – oltre ad una sorgiva passione per la provocazione – è l’ambizione di scrivere col suo teatro una pagina di critica sociale, o comunque di sovvertimento dei luoghi comuni, anche se spesso il miele che lo attira di partenza è la possibilità di incrociare le due tematiche dell’omosessualità e del sadismo, che sia nel privato di casi da scoperchiare, che sia in famosi precursori, che sia nel risvolto nella sfera della politica e delle dinamiche di potere.

In questo caso – Adelaide, marchesa Leopardi (Roma, Teatrosophia, 14-17.11.2024) – il nodo di partenza, da cui filare complessa tela, è l’ipotesi dell’omosessualità di Leopardi, già affrontata dall’autore in un suo precedente spettacolo, Leopardi amava Ranieri (Napoli, 2016), e la cui tesi appare poi ampiamente sostenuta dal critico Franco Buffoni nel suo Silvia è un anagramma (2020).

Ma se là il centro era l’amore infelice di Leopardi per il suo giovane sfruttatore, che da lui si faceva mantenere e da lui sperava fama di riflesso, salvo poi nelle proprie memorie prenderne un po’ le distanze, qui il quadro si fa complesso e coinvolge l’intera famiglia, tessendo il labirinto delle sue contraddizioni affettive caratteriali ideologiche.

Il nucleo fondante sembrava inizialmente essere la vena sadico persecutoria della madre, da Mocciola dilatata immaginariamente ai limiti  della patologia (così nel saggio iniziale visto a Cappella Orsini). Questo nucleo ora resta, ma ridimensionato, e la figura della madre ne esce assai più complessa. 

Non so se Mocciola si sia appoggiato al testo di Gianni Zagato – Entro dipinta gabbia. Dialogo immaginario tra Giacomo Leopardi e la madre Adelaide Antici duemiladiciannove, duecento anni dopo L’infinito (Agra, 2019), ma certo entrambi consuonano nell’accostare ad una madre severa e controllante (anche se in Zagato meno terribile) l’ipotesi in lei di un sottofondo di sofferto amore.

Zagato suggerisce infatti di riconsiderare l’amore viscerale di Adelaide Antici per i propri figli, ed in genere i suoi sentimenti. 

Così sottolinea come l’amore per Monaldo fosse stato a prima vista, e contro le famiglie di entrambi, e come di fronte al travagliatissimo parto del primogenito, il poeta, ella dichiari di voler morire pur di salvare la vita del primo figlio. Inoltre, benché dipinta come avara, ed ancora gravata di debiti, e benché laconica ed apparentemente dura nel rapporto epistolare col figlio a Napoli, non esita su sua richiesta a corrispondergli, da lui richiestane, un assegno mensile.

Ma certo, anche se forse non sadica ai vertici che qui vedremo, come poteva gestire amore, conti, figli questa donna? Lei che, educata dalle Oblate dell’Assunta di Recanati, all’insegna di un cupo e masochistico cattolicesimo propugnatore di un dio muto e punitivo, probabilmente viveva la sua stessa straordinaria bellezza, con malinconia e severità come una colpa da espiare, ed era stata scaraventata a venti anni dalla clausura al fuoco della vita e della responsabilità. 

Così Mocciola, se le fa dire, citando la Bibbia  

      E Dio disse a Mosè:  “Nelle generazioni future nessuno dei tuoi discendenti che abbia qualche

      deformità si avvicinerà per offrire il pane del suo Dio […] Striscia ai piedi del padre, come un verme 

e se la immagina e ce la mostra organizzare in modo sadico una visita medica a Giacomo, costretto nudo, e con un pubblico, allo stesso tempo più avanti le fa dire

         Dopo di te Luigi è morto dopo sei giorni, Francesco Saverio a un anno, Raimondo lo stesso

         giorno in cui nacque, Giuseppe pure. Ignazio ha vissuto due giorni. Ho partorito e sepolto

         figli, ubbidendo alla volontà di Dio e salvando il patrimonio della famiglia di mio marito,

        attingendo dal mio. Per tutti gli anni in cui Monaldo è stato interdetto, il giudice mi ha

         affidato l’amministrazione del patrimonio familiare, che ho riassestato. Per farti pubblicare

        le prime poesie, ho pagato personalmente tredici scudi e settantacinque, vendendo alcuni 

        gioielli di famiglia. Ti ho tenuto d’occhio da quando sei nato fino all’ultimo istante in cui sei

       stato qui da noi. Sì, avrei voluto che prendessi i voti, disperando che qualche donna potesse

       essere attratta da te e viceversa. Viceversa, soprattutto. Ma di notte, quando dormivi, entravo

       piano nella stanza. Sentivo il tuo respiro asmatico, fischiare sofferente. E ti immaginavo sempre

       più sofferente

Ti immaginavo sempre più sofferente. E’ una madre che non sa comunicare l’amore, eppure silente veglia. 

E il sadismo?

Mocciola – e forse è chiedergli troppo – non spiega le contraddizioni limitandosi ad esibirle, per giustapposizione. E questo fa sì che ogni tanto la rappresentazione proceda un po’ per sbalzi.

Possiamo tuttavia immaginare noi che la rigidità materna, il suo latente sadismo (qui immaginato esplicito), fossero una forma autopunitiva, religiosa, proiettata sul figlio della colpa. 

Di lei infatti, che probabilmente si era sentita in colpa per la propria bellezza ed il proprio amore, Mocciola fa dire al figlio

                Lei considera la bellezza come una vera disgrazia e vedendo i suoi figli brutti o deformi ne 

                ringrazia Dio non per eroismo ma di tutta voglia. Non procura in nessun modo di aiutarli

                a nascondere i loro difetti, anzi pretende che in vista di essi, rinuncino interamente alla vita

               nella loro prima gioventù

Dunque il sadismo verrebbe ad essere non in contraddizione con l’amore, ma una sua forma distorta, un voler proteggere i figli dalla colpa, come non aveva fatto con se stessa.

Meno convincenti invece sono alcune modernizzazioni.

Da un lato il linguaggio sessualmente provocatorio di un Monaldo immaginato alcolista per frustrazione, e che – benché lo si sappia lui stesso bigotto, papalino, codino – così vediamo esprimersi

           ADELAIDE  Volevi che scendessi in camicia da notte? Davanti ai tuoi figli?

          MONALDO  Li hai partoriti. Li hai emessi dalla tua vagina! […] Filomena… 

          Che zinne, che cosce… (canticchia) Filomenaaaa come se la menaaaaa…

         Ma l’hai sentita, a proposito Filomena, come grida nelle stalle quando 

         si fa fottere dal giardiniere? 

Dall’altro questa madre – così arcaica e rigida – di fronte al dichiarato amore del figlio per un uomo, la vediamo dire, per sdrammatizzare, e forse per negare e rimuovere,

      Sono cose che passano per la testa, ai giovani…  E poi passano. Giusto?

      Immagino faccia parte del processo di crescita. Non ci darei troppo peso. 

Difficile immaginare una cosa del genere in un secolo dove l’omosessualità era rimossa, e comunque il sesso non argomento del discorso femminile.

E’ chiaro tuttavia che Mocciola non cerca la coerenza filologica, ma una ipotetica coerenza psichica sotterranea che innervi le contraddizioni di superficie, accettando quindi di violentare e modernizzare in tal senso i caratteri. La tesi di fondo infatti è che dietro la repressione tra i due coniugi scorra una forte attrazione sessuale, e che dietro il rimpallo tra madre severa e padre protettivo corra un comune forte disperato amore genitoriale.

E di fatti sul finale, quando sospirano il ritorno del figlio da Napoli, oltre a vedere la comprensione amorevole di Adelaide per il marito

                      Tuo padre piange e non è a causa dell’alcool. Gli manchi. Non lo vedo bene.

                      Almeno per lui, torna. 

abbiamo, abilmente affiancati in avanscena dalla regista, i due monologhi di confessione dell’amore genitoriale. Di lei abbiamo già detto. E commoventemente così, fa eco il padre

       Eri il primo figlio e per l’occasione volli assistere al parto […] nascesti senza un pianto

      […] Ti credevano morto […] Mi sentii svenire […] poi crescesti dolce, mite, quasi assente. 

     […] una strana apprensione mi prendeva alla gola quando rimanevi solo. 

    Mi sembrava di cogliere qualcosa di disperato, una richiesta d’aiuto. 

Anche qui … I padri nell’ottocento erano rigorosamente esclusi dalla stanza del parto.

Ma non importa. E’ funzionale al climax emotivo.

Certo. Lo amano. A modo loro.

Gelosamente, tuttavia, ed in modo alterno, tra dispute e complicità pedagogiche. 

E’ il loro pupazzo, un figlio saponificato, che giustamente ed abilmente il giovane Lorenzo Mereu (sostenuto dal testo e dalla regia) interpreta con voce tremante cantilenata e querula, ora nudo carponi, ora attonito a vagare in scena angelo vestito di stracci bianchi, sulla cui schiena si accendono fili dorati e lucine da presepe. Si lamenta, lucidamente accusa, invano chiede sostegno al padre, di cui tenta di alleviare la fragilità isterica, facendosi da figlio genitore.

E Monaldo – ben rappresentato da Francesco Giannotti  – borbotta, schiamazza, si torce sulla sedia, invade fisicamente la moglie con avvinghiamenti, il figlio con carezze. E Giannotti è abile nel giocare la sua disperazione da bue al macello, al macello di sentimenti che non domina, tra paternità sessualità dignità maschile.

La regia della Filanti si muove per quadri e stacchi, tra buio, penombra, controluce, luce piena.

E gioca con forza gli sbalzi e le sorprese testuali.

Forte in particolare la presenza scenica della madre, giocata in nero, e a cui la Stazzonelli sa dare la giusta rigidità fisica, anche se vocalmente forse all’inizio troppo impostata sul gridato, e invece assai più convincente dove comincia a tremare alla luce dei sentimenti, con toni franti e morbidi.

Il nero. La platea. 

Due bei segni scenici. 

La Filanti le fa fare un ingresso ieratico, tutta in nero e con il velo nero, scuotendo le chiavi di casa come il campanaccio di una processione. E la fa sedere in platea, in prima fila, dondolandosi in avanti e litaniando, come se lo spettacolo che va a cominciare fosse la sua triste messa mortuaria. La stessa platea dove poi si siederà la loro vittima sacrificale, il figlio, ad ascoltare i genitori. 

E sempre in nero, ma ora nel segno dell’eros, sotto un vivido foulard fiorito, eccola aprire le braccia ad ala, e scatenarsi nel ballo della gloria, con Monaldo, inscenando il tango del trionfo per le probabili nozze della figlia. Un impressionante sbalzo di mondi per sbalzo visivo,  che segue al precedente gruppo verticale genitoriale intorno alla sedia paterna, mentre ascoltano i lamenti filiali, che diventano poi un vortice madre figlio intorno alla sedia della passività paterna.

Francesco Giannotti, Cristiana Stazzonelli e Lorenzo Mereu (foto di ©Marco Lausi)

Ombre luci schegge d’amore si susseguono dunque in una sofferta danza d’anima e di contraddizioni, fino a smorire nella allucinata speranza delusa del ritorno del figlio, quando si illudono di sentirlo, e ombra nel buio, a fondo scena, ripetono ossessivi … avanti, avanti, avanti.

Dissolvenza. Silenzio. I giusti applausi.

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Adelaide, marchesa Leopardi – di Antonio Mocciola – regia Giorgia Filanti – con Cristiana Stazzonelli, Francesco Giannotti, Lorenzo Mereu – Roma, Teatrosophia, 14-17.11.2024