Per la prima volta in Italia, Eva Duda Dance Company porta a Vicenza “Frida”.
Colore e corpo, danza e arte, storia e musica nello stesso spazio teatrale: i quadri viventi, creati dalla coreografa ungherese Eva Duda e dalla sua compagnia, hanno raccontato i passaggi e i momenti particolari della vita di Frida Kahlo, attraverso la danza.
Lo spettacolo Frida ha aperto la stagione della danza al Teatro Comunale di Vicenza, nella serata di giovedì 21 novembre: una scelta ben accolta dalla numerosa platea che ha potuto conoscere qualcosa in più della straordinaria pittrice messicana. Il lato emotivo, sofferente, la delicatezza, la passione, la forza, la capacità di inalzare il suo dolore e di trasformarlo: tutti elementi che l’hanno contraddistinta come donna e come artista. L’incontro tra forme artistiche anche diverse, fuse nello stesso contesto ha restituito al pubblico una narrazione visiva molto attenta e coinvolgente, fatta da titoli specifici e da una composizione fedele alla storia, all’emozione e al Messico.
Frida sin dal suo inizio è, di fatto, un film muto trasportato sul palcoscenico, fatto di bellezza artistica in movimento. Un cono di luce verticale accoglie la protagonista, interpretata da Eleonora Accalai, in una sorta di passerella illuminata; il primo momento è dominato dal colore rosso e dalla vivacità, successivamente stemperati dall’entrata in scena di un personaggio particolare, un uomo vestito di fiori. Una figura emblematica, sconcertante per certi versi che, una volta presa e sollevata, lascia a terra Frida, inginocchiata, sola sul palco. Forse il simbolo, più volte ripreso nello spettacolo, della vita e della morte stessa, della sofferenza e della rinascita, della perdita e della ripresa, bellezza e solitudine rappresentati dallo stesso elemento floreale.
Da lì in poi i diversi capitoli raccontano, nel vero senso della parola, i momenti cardine della vita della pittrice con l’alternarsi di quadri coreografici studiati con semplicità ma capaci di andare dritti al contenuto. Quadri in movimento composti dalla fisicità dei protagonisti, dalla proiezione multimediale delle opere (tra cui diversi autoritratti), dalle musiche scelte, dal colore.
Ecco allora la parte del dolore fisico, quel Broken body, il corpo rotto, spezzato dall’incidente, che viene spogliato, martoriato, passato di mano in mano da figure asettiche, contenuto e chiuso in un busto. Segue poi la fase della rinascita, del nuovo inizio caratterizzato da due parole, Painting and therapy: Frida sublima il suo dolore con grande dignità e fierezza attraverso la pittura, per citare le parole di Lara Crippa (nell’incontro pre-spettacolo), trova nella tela un appiglio, un modo per narrare se stessa e il suo stato d’animo, la sua dimensione immobile, di solitudine, di ricerca e coraggio.
Negli autoritratti che si intervallano, ci sono i suoi occhi fissi, la sua espressione ferma nonostante ciò che la circonda, il grande rispetto e la forza che la sua condizione suscita in chi sa andare oltre la semplice rappresentazione. L’altro grande protagonista della sua vita (e dello spettacolo) è il marito, il pittore muralista Diego Rivera interpretato da Tibor Kovàts: sul palco lui dipinge “orchestrando”, gradualmente, la sua opera Sogno di una domenica pomeriggio nel parco di Alameda ed è lì che incontra la futura moglie.
I due ballano insieme in una sorta di corteggiamento che, a tratti, sembra una lotta, un duello dove l’uno prevale sull’altro, dove la passione sfocia in impeto, rabbia, controllo, abbandono. Una danza che simboleggia quello che fu il loro vero rapporto, fatto di tradimenti, rotture, un amore tormentato, travigliato.
Il colore, come più volte citato, domina ed è molto presente sul palco: la tradizione messicana passa attraverso la danza, mezzo di espressione potente, i costumi (fatti quasi interamente con materiale riciclato), le scelte cromatiche, la vivacità dei movimenti. Caratteristiche che si trovano nei capitoli Wedding e Carneval: il primo narra visivamente il matrimonio tra Diego e Frida, il secondo invece è una vera e propria sfilata dei personaggi sulle note del Bolero. Scene tecnicamente curate e di grande impatto, dove la velocità delle danze locali si unisce agli abiti, alla tradizionalità, alla lentezza celebrativa della musica di Ravel.
Sofferente e commuovente è la parte dedicata alla rappresentazione di uno dei grandi “dispiaceri” della protagonista: l’impossibilità di essere madre e di avere figli. Childless è pura sofferenza corporea e spirituale, è tormento, impotenza, la solitudine profonda e incomprensibile a chi non la vive in prima persona. Uno dei momenti dove la danza trasporta davvero un frammento dello stato d’animo di Frida Kahlo tramite un’immedesimazione rara.
Anche in questo capitolo personale e delicato, Eva Duda ha scelto di far “parlare” una serie di quadri significativi, senza seguire un ordine cronologico: Radici, Le due Frida, Il cervo ferito, Autoritratto con i capelli tagliati. In essi, il dolore, rappresentato nelle sue forme più diverse, legato a specifici episodi vissuti, viene inalzato, portato ai suoi livelli massimi, trasformato in arte per essere sentito, percepito, condiviso per quanto poco.
Sulla scia dell’abbandono e di un’atmosfera più cupa e fumosa, l’ultima parte Farewell, l’addio, vede Frida e Diego, avvolti in cappotti pesanti, uniti da una danza di saluto, lenta, trascinata, molto diversa da quella delle loro nozze. Un momento di distacco quasi malinconico, poetico. Le note e le parole della canzone Llorona chiudono la narrazione teatrale di Frida: lei è al centro, vestita con abiti tradizionali, alle sue spalle La tavola ferita, circondata da una scena metateatrale.
Ballerini e addetti ai lavori sono concentrati nelle loro attività, in una sorta di teatro nel teatro. Fuori dal palco ognuno prosegue ed è preso da altro, “quanta bellezza che arriva e passerà” scrive Mengoni nella sua La Casa Azul, dopo l’addio il resto va avanti comunque, l’esistenza riprende e scorre, mentre lei, la pittrice / ballerina, guarda immobile la vita che fluisce e va avanti. Esattamente come la vera Frida, immobilizzata dalla sofferenza, nata e risorta più volte, come sono e saranno sempre i suoi occhi rappresentati nelle tele, le sue emozioni intrappolate e racchiuse nei colori dipinti.
Scontato dire che lo spettacolo di Eva Duda è stata una scelta azzeccata e potente per questo inizio di stagione: uno spettacolo capace di catalizzare più espressioni artistiche, di riportare alla luce spezzoni di vita e di emozione difficili da interpretare, tradurre. Eva Duda Dance Company ha saputo proporre una narrazione comprensibile e ricca, che “parla” attraverso le opere.
“Può la bellezza trascinarci via, se l’arte è una bugia che dice la verità?”, canta Mengoni, in Frida la bellezza è sorta dalla sofferenza, dall’aspirazione alla libertà, dall’aver trovato nell’arte un mezzo di salvezza e di comunicazione; il verosimile dipinto, patito e vissuto sulla pelle e sull’anima, l’ha consacrata ad artista non convenzionale, unica. Una donna, un’artista, una figura straordinaria che, ancora oggi, continua a sorprendere e ispirare così come testimonia questo lavoro coreografico e artistico.
Frida – Coreografa e direttrice della compagnia Eva Duda, interpreti Eleonora Accalai, Tibor Kováts e i danzatori di Eva Duda Dance Company, musica Izsák Farkas, Tibor Molnár, costumi Kató Huszár, Julcsi Kiss, scene Eva Duda, video mapping Gábor Karcis, Mátyás Fekete, disegno/luci József Pető, assistente alla coreografa Beatrix Csák, manager di produzione Orsolya Vitárius, amministratore di compagnia Anita Vodál, una produzione Eva Duda Dance Company. Spettacolo realizzato in collaborazione con Hungarian National Dance Theatre, con il sostegno di Ministry of Culture and Innovation, Human Capacities Grant Management Office, National Cultural Fund of Hungary, National Dance Theatre, Budapest Capital City’s Council of XI District Ujbuda, FUGE Productions, Movein Studio, Workshop Foundation, Viwa Vitaminwater – Teatro Comunale di Vicenza 21 novembre
Foto di copertina / in evidenza: Tamas Leko