La danza poetica di Riva & Repele

Intervista al duo Riva & Repele. Questa sera, 10 ottobre, il debutto sul palco del Romaeuropa Festival con “Dear Son”.

Prima apparizione sul palco del REF per il duo Riva & Repele, che, coniugando stili neoclassici e contemporanei, pur senza etichettarsi rigidamente, si sono affermati come “poeti della danza” sulle scene internazionali. In questa edizione del Festival, il duo presenta in prima nazionale Dear Son, una pièce di forte impatto emotivo e drammaturgico: una storia di amore, speranza e dolore, che trascende i confini spazio-temporali. All’alba di questo debutto, Sasha Riva e Simone Repele si raccontano in un’intima chiacchierata.

© Angelina-Bertrand

Il vostro è un lavoro caratterizzato dalla forte sensibilità teatrale e poetica. Qual è stata la spinta creativa e drammaturgica che ha portato alla nascita di Riva & Repele e alla vostra collaborazione artistica?

La nostra collaborazione è nata quasi per caso. Non avevamo programmato di creare insieme, ma una serie di fattori ci ha inconsapevolmente avvicinati nel tempo. Ci siamo conosciuti all’Hamburg Ballet, avevamo 15 e 17 anni, e da subito è stato evidente quanto fossimo diversi, quasi opposti, come personalità. Durante gli anni in accademia, ci osservavamo molto ed è nata una grande stima reciproca. Quando, qualche anno dopo, ci siamo ritrovati  nella compagnia del Geneva Ballet, le nostre differenze e i nostri punti di forza – come l’ambizione, la passione e la creatività – hanno iniziato a fondersi in modo naturale.

Un aspetto determinante è stato il desiderio condiviso di esplorare nuove possibilità creative, in parte perché non eravamo pienamente soddisfatti del repertorio proposto dalla compagnia di Ginevra. Abbiamo iniziato a creare piccoli assoli e duetti per gala e festival, e da lì è stato un crescendo che ci ha portati a sviluppare un percorso artistico sempre più intenso e coeso.

Nei vostri lavori è possibile rintracciare l’uso di un vocabolario che spazia dal neoclassicismo alla danza contemporanea. Come definireste la vostra cifra stilistica, se doveste descriverla?

Per noi, il punto è proprio non cercare di etichettare. Sentiamo che ultimamente si tende a categorizzare in modo eccessivo, soprattutto i giovani coreografi, tracciando una netta divisione tra danza classica e contemporanea. Forse è dovuto al fatto che, con tanti festival, è necessario dare indicazioni al pubblico su cosa aspettarsi. Tuttavia, riteniamo che questa rigidità non sempre renda giustizia alla danza. La danza è un linguaggio unico che ormai si esprime in innumerevoli forme, da quelle più lineari e accademiche a quelle concettuali o ispirate alla danza urbana.

Le nuove generazioni, inoltre, devono confrontarsi con i social media, che a nostro parere portano a giudizi spesso affrettati sull’identità stilistica dei nuovi coreografi emergenti come noi. Più che etichettare il nostro lavoro come neoclassico o contemporaneo, per noi è importante essere autentici. Siamo interpreti delle nostre stesse creazioni e, quando saliamo sul palco, vogliamo esprimere qualcosa che ci faccia sentire davvero appagati a livello artistico.

Stiamo lavorando molto per sviluppare una nostra gestualità unica, che si distacchi gradualmente dalle influenze dei grandi coreografi con cui abbiamo lavorato, conosciuto ed ispirato e che naturalmente abbiamo assorbito. È un work in progress continuo. Una cosa è certa: ci piace lavorare con artisti che scegliamo personalmente per i nostri progetti, creando con e su di loro. Per noi è essenziale raccontare l’umanità e le emozioni, mettendo al centro il danzatore. Vogliamo che, oltre a eseguire la coreografia, compia un lavoro di ricerca personale, trovando una propria interpretazione del ruolo, affinché risulti autentico e vero.

Questo è il vostro debutto al REF, che anche quest’anno offre spazio al panorama coreutico internazionale. Pensate che questa collaborazione possa aprire la strada a nuove occasioni future?

È un onore fare parte di un festival come Romaeuropa che ogni anno invita le numerose compagnie del panorama internazionale. Da quando abbiamo iniziato a creare i nostri lavori coreografici, abbiamo avuto l’opportunità di confrontarci con molte realtà diverse: dagli enti lirici, lavorando con ballerini classici e orchestre sinfoniche, fino ai festival e alle compagnie di danza più contemporanee. Ogni esperienza è per noi una preziosa occasione di crescita, sia artistica che professionale. Accogliamo ogni nuova opportunità con entusiasmo, consapevoli che ciascuna porta con sé sfide creative diverse, ma è proprio questo che ci motiva e ci spinge a evolvere continuamente.

Questa sera debutterà sul palco dell’Auditorium Parco della Musica Dear Son, nella sua prima nazionale. La pièce mette in scena la drammatica realtà della perdita di un figlio. Come si intersecano o si alternano i piani temporali del passato, presente e futuro in questa opera?

“Dear Son” parte da un’unica immagine: un’anziana signora che si ritrova, sola, al tavolino del suo soggiorno, intenta a scrivere una lettera al figlio, partito molti anni prima per la guerra e mai più tornato. Mentre inizia a scrivere, viaggia nei ricordi, ripercorrendo tutta la sua vita: il primo incontro con il futuro marito, il matrimonio, la gravidanza, la nascita del bambino, e il legame affettivo con il figlio. È evidenziato anche il forte legame affettivo che unisce la famiglia, qualcosa che sentiamo vicino perché entrambi siamo molto legati alle nostre rispettive famiglie.

La madre ricorda anche il giorno della partenza del figlio per il fronte e l’ultima immagine di lui che indossa la giacca da soldato. Nella seconda parte della pièce, si vede che, turbata dal pensiero che il figlio possa essere disperso e probabilmente morto in guerra, non riesce a completare la lettera: continua a strappare i fogli e a ricominciare da capo. Sullo sfondo, delle proiezioni ripercorrono in sequenza cronologica la vita di questa famiglia, partendo da un ritratto familiare fino all’ultima immagine che mostra i genitori ormai anziani, consumati e impolverati, come vecchi soprammobili ormai fragili. Nei loro corpi si legge il passare del tempo, e sono ancora lì, fianco a fianco, aspettando invano, con fatica, il ritorno di quel caro figlio.

Qual è l’intento poetico e drammaturgico alla base di Dear Son?

Esiste un corso naturale della vita in cui i genitori crescono i figli e, invecchiando, giungono alla fine dei propri giorni. Ci siamo soffermati a riflettere sul dramma che scaturisce quando questo ordine si inverte: il dolore profondo di un genitore costretto a seppellire il proprio figlio, sopravvivendo poi fino alla fine dei suoi giorni con il pensiero costante di quella perdita. Questo dolore altera profondamente la percezione del tempo e del significato stesso della vita, sconvolgendo l’equilibrio con cui si affronta l’esistenza, lontano dal ciclo naturale e sereno che tutti dovrebbero vivere.

Auspicando di vedervi prossimamente sulle scene di REF, quali i vostri progetti futuri?

Alcune delle prossime date in tour di “Dear Son”: saremo presto all’Augsburg Ballet in Germania per rimontare il nostro duetto “Sinking” per la compagnia. A seguire, lavoreremo con lo Stuttgart Ballet dove, in veste di coreografi, riproporremo il nostro trio “La Jeune fille et les morts”. Parteciperemo inoltre a numerosi Gala, sia come danzatori che come coreografi, tra cui “Les Etoiles” di Daniele Cipriani al Teatro Arcimboldi di Milano e il Gala “L’Opéra en Guyane”, organizzato dall’Opéra di Parigi.

©Angelina-Bertrand

Riva & Repele si impongono con eleganza e una sensibilità profonda nel panorama contemporaneo della danza e, senza dubbio, continueremo a sentir parlare di loro ancora a lungo. Non possiamo che augurare loro, quindi, un sincero “in bocca al lupo” per il futuro.

Immagine di copertina: ©Angelina-Bertrand