Lo spettacolo, prodotto dalla Compagnia San Lorenzo, ha debuttato il 31 luglio al Tindari Festival.
In un angolo che ti fa vedere il mare, alla Tenuta Capo Rasocolmo di Piano Torre a qualche chilometro dal centro di Messina, va in scena L’arto fantasma scritto e diretto da Michelangelo Maria Zanghì, con Nunzia Lo Presti, Alessio Bonaffini e lo stesso autore e regista. Lo spettacolo chiude il Cortile Teatro Festival diretto da Roberto Bonaventura.
Si parla dell’alluvione di Giampilieri del primo ottobre duemilanove in cui persero la vita trentasette persone: tra queste, è necessario dirlo perché a nostro avviso imprescindibile nella lettura dello spettacolo, anche la madre di Zanghì, interpretata da Nunzia Lo Presti.
È lei a dare inizio all’azione scenica contando le valigie accatastate che fanno la forma di una montagna nella scenografia scelta da Cleopatra Cortese; un inizio in cui due anime, quindi Agata e Fortunato (Michelangelo Maria Zanghì), scambiano qualche battuta sul mondo tangibile che hanno lasciato. Adesso si trovano in una sorta di limbo: «Un luogo in cui c’è troppa calma».
Lo spettatore fa un po’ fatica nel mettere insieme i pezzi e definire il ruolo dei due personaggi le cui voci vengono intervallate da quella di Elio (Alessio Bonaffini), che raccontando l’ascesa e il declino della sua passione per il calcio fa un giro un po’ lungo per spiegare che relazione ha con queste due forme rarefatte di blu vestite: è il figlio e il nipote e soffre della sindrome dell’arto fantasma perché Agata, in quella notte del duemilanove, è morta senza «garbo e attenzione».
Ed Elio è arrabbiato perché le madri sono come prolungamenti dei nostri nasi, dei nostri occhi, delle nostre bocche, della nostra voce e rassegnarsi a una morte per caso non è facile, diremo impossibile. E ti chiedi allora come sopravvivere a un braccio, a un occhio, a una bocca, a una voce che non c’è, che hai perso per puro caso.
Michelangelo Maria Zanghì stende un filo di parole, virgole, punti che va da qui a lì: in quel luogo in cui «si smette di fumare e la rabbia non esiste». Un filo che, tuttavia, non sembra essere teso a sufficienza: i dialoghi danno l’impressione di non volersi staccare dal palato dei due corpi che, uno di fianco all’altro, ricordano alcune soluzioni sceniche utilizzate nel teatro dell’assurdo: posizioni statiche, sguardi rivolti al pubblico, frasi che sanno di silenzi, silenzi che sanno di pensieri.
Zanghì è leggermente in affanno nelle battute, Nunzia Lo Presti è un’ottima compagna di palco che sostiene il collega con occhi e corpo, Bonaffini sembra (a malincuore) sottotono. Ma come non affannarsi quando metti in scena ricordi di pranzi e battibecchi, di favole dette per andare a dormire, di amore: è praticamente impossibile.
Forse creare un piccolo foro in quella parete che è il teatro, svelando tutto, poteva essere una soluzione per far comprendere appieno quello che stava scorrendo sul palco: una pagina di un diario molto personale in cui la finzione si mescola alla vita che è esistita davvero; così da essere completamente avvolti dalla storia di questa famiglia tenera e unita che sta “Dentro la tasca di un qualunque mattino”.
Foto di Domenico Genovese