Proust: isteria, pettegolezzi, gerarchie, segreti dolori.
Era parecchio che non si osava riproporre a teatro il capolavoro proustiano, Alla ricerca del tempo perduto. Più di un ostacolo vi si frappone. La dimensione fluviale per numero di pagine e sintassi, la natura narrativa e non teatrale, ma soprattutto il sovrastare dell’apparato percettivo sensoriale e riflessivo sull’intersecarsi di fatti, azioni ritratti.
E non sottovaluterei poi il doversi misurare con un famoso archetipo del teatro di ricerca, il Proust di Giuliano Vasilicò, andato in scena nel 1976, al Beat 72.
Così ne parlava Aggeo Savioli (L’unità, 12.12.76)
Vasilicò procede per immagini a stacco, in movimento, talora fisse, alternando a citazioni musicali sussurri e grida delia natura (chiasso di uccelli, soffio di vento). Costumi, in prevalenza sul nero, la tensione figurativa è forte. Le forme umane si connettono ad altre animalesche o meccaniche. Una sorta di spirale verso il profondo, dal buio al buio, attraverso chiarori abbaglianti.
Insomma, una lettura visionaria, espressionistica, concentrata, secondo quello che alcuni definivano allora il teatro immagine.
Diversa la scelta di Duccio Camerini, che peraltro lavora con una massa impressionante di attori, 38 allievi del Laboratorio di Arti Sceniche diretto da Massimiliano Bruno, il che già porta in direzione diversa dalla sintesi, sia pure in una certa misura imprescindibile.
L’operazione comprende quindi tre serate in cui si sgrana una trilogia scenica a puntate, poi ripresentata intera al quarto giorno
1 – Dalla parte di Swann / All’ombra delle fanciulle in fiore
2 – Dalla parte dei Guermantes / Sodoma e Gomorra
3 – La prigioniera / Albertine scomparsa / Il tempo ritrovato
Il livello che Camerini sceglie è il flusso della relazione sociale, l’azione come chiacchiera, con i suoi abissi le sue ipocrisie, i suoi dolori e malinconie, i suoi silenzi, le isterie e le crudeltà ridicole, piccole piccole. Una sciogliersi e raggrumarsi di gruppi e singoli, a scena nuda, con un ritmo concertato a sistole e diastole, e talvolta con campi e controcampi di duetti in parallelo, reciprocamente illuminantesi per equivalenze tonali.
Del resto Camerini lo dichiara apertamente
“Lo stile. La digressione, la descrizione, la creazione di atmosfere. Eppure le atmosfere sottili non sono tutto in lui. Proust sa essere violento, attraverso le azioni che “mette in scena”, oppure attraverso i suoi celebri dialoghi affilati. Forse la chiave era proprio partire da quelle “azioni, e dalle loro conseguenze”
Io ho assistito alla seconda serata ( I Guermantes – Sodoma ), che corrisponde al momento in cui i nodi preparati dai primi due volumi vengono al pettine.
Marcel, protagonista, e ombra dell’autore, vede il fondersi dei vari salotti, ciascuno con le sue alchimie e stupide gerarchie.
Vede le piccolezze della da lui mitizzata nobiltà, e contemporaneamente si spalancano gli abissi degli affetti e dello scandalo omosessuale: il probabile lesbismo del suo amore, Albertine (nella realtà Alfred Agostinelli, segretario personale e amante di Proust), e la palese isterica omosessualità del barone di Charlus, prima a circuire lui, e poi succube dell’amore opportunistico del violinista Morel.
Dicevo, sistole e diastole, gruppi e coppie, assiepamenti e dissolvenze, in concertato.
Tutto fluisce e defluisce al centro dall’oscurità dell’arco di fondo scena (strutturale al Diamante).
Gruppi nel caso dei salotti (della duchessa, della Villeparisis, dei Verdurin), o della banda di femmine perverse e lesbo a Balbec.
Oppure coppie.
Marcel/Albertine e Charlus/Morel, o Marcel e la nonna, declinando così, progressivamente, la di lei malattia, e il lutto inconsolabile di lui.
Ogni tanto poi, con effetto di straniamento, alcuni dei protagonisti si tirano fuori e, seduti di spalle in avanscena, diventano spettatori, ora pettegoli, ora traumatizzati, come Marcel, con la sua tosse asmatica in reazione alle scene lesbo.
La recitazione è volutamente – forse troppo talvolta – sopra le righe, o caricatural gestuale o gridato isterica, per tutto quanto riguarda il sociale. E’ efficace nel rendere alcune dinamiche comiche da salotto, o nel dipingere la figura di Charlus, ma forse è eccessivo il gridato costante delle scene di gelosia.
Interessanti invece alcuni scostamenti dal testo originale, ed alcuni invenzioni sceniche.
Diversamente da quanto nel romanzo, qui Jupien, sarto di tutta la nobiltà, e amante da cortile di Charlus, viene annunciato nei salotti, e ne rivendica polemicamente il diritto. Una distorsione scenica che fa le veci della critica ai padroni, pettegola sotterranea continua, della servitù, che è una critica ipocrita che conferma la gerarchia. Qui invece, forse senza troppo convincere arieggia un Figaro settecentesco fuori luogo.
Più interessante, e vero controcanto muto a tanto rumore è la figura della nonna, sempre silente, e vestita di rosso. Le sue apparizioni dal buio del retroscena vanno crescendo, ed hanno un culmine che ne fa una strana potenza. Lei che è il profondo del sentimento in Marcel, l’anima contro il sociale. In punto di morte viene portata in scena sdraiata su un tavolaccio, dove tuttavia si agita, vestita di rosso, a gambe nude, in modo lascivo, mentre i portatori (famiglia) si accucciano basiti sotto il tavolo. Poi lei scende dal tavolo, su cui posa il cappello, come un fiore sulla bara, e gestisce un cantar parlato con un invisibile coro, per dileguarsi in danza, mentre gli altri portano il solo tavolo come un feretro.
Una nonna che è una fiamma di eros sacro, d’anima, il fiore perverso, forse edipico, dell’anima di Marcel, a cui non a caso segue una scena con Albertine.
L’amor sacro e l’amor profano.
Belle idee sceniche sono infine due che ruotano intorno alla figura di Morel, dittatore del cuore di Charlus, e suo burattinaio.
La prima riguarda il rapporto di dipendenza di Charlus, che Morel racconta tirandolo in scena con un filo rosso, come un cane al guinzaglio. Segue il suo successo nel salotto, come violinista. In realtà in scena compare a suonare una violinista, mentre lui mima in piedi estatici stati d’animo, ondeggiando a bocca aperta e sospirosa. Degrado del mondo e trauma degli affetti. Come ci diceva Camerini, azioni e dialoghi, e le conseguenze.
Tutto questo regge nel concertato teatrale, ma resta l’impossibile corrispondenza con lo straniamento circolare della coscienza proustiana. Mancano lo stupore, la distanza, l’epifania poetica, salvo forse un po’ con la figura della nonna. Mancano un po’ di silenzi in questo pur riuscito alveare di fremiti convulsi.
Tuttavia il romanzo ha travature possenti, e alcune linee – satira, relazioni, sentimenti – tralucono con vivacità in questa scelta prospettica. Ed è quanto basta per una sfida come questa ardua. E il pubblico aderisce con entusiasmo.
Alla ricerca del tempo perduto – Trilogia di Duccio Camerini
1 – Dalla parte di Swann / All’ombra delle fanciulle in fiore
2 – Dalla parte dei Guermantes / Sodoma e Gomorra
3 – La prigioniera / Albertine scomparsa / Il tempo ritrovato
Adattamento di Duccio Camerini e Marcello La Bella – Con gli allievi del Laboratorio di Arti Sceniche diretto da Massimiliano Bruno : Maria Stella Adario, Francesca Alati, Costanza Canelli, Davide Coppini, Francesco Di Cesare, Samuel Di Clemente, Susanna Funaioli, Francesca Gregori, Marcello La Bella, Fulvio La Palma, Emanuele Lombardi, Caterina Lucente, Alessio Mascelloni, Francesca Medde, Marianna Menga, Alessandra Modica, Emanuele Modica, Arianna Panieri, Emanuela Panzarino, Alessandra Persi, Francesco Piazza, Emma Piccirilli, Martina Pinori, Irene Roccalto, Lorenzo Rossi, Natalie Scinicariello, Elia Testa, Benedetta Tiberi, Matteo Valentini, Veronica Violo – e con la partecipazione di Alessandro Giorgi, Morenio Panni, Giovanni Andrei, Francesco Gaudenzi, Nicola Cuneo, Lorenzo Chiarusi, Matteo Annibali, Gabriele Manzo, Nicole Delfino – Aiuto Regia Cristina Tassone, Alessandro Giorgi, Maya Camerini Musiche : Margherita Fusi- guitar, Keyboards, drums, voice – Antonella Franceschini- violino – Samuel Di Clemente guitar – Alessio Mascelloni- bass – Teatro Basilica, Roma 18-21 luglio 2024