Giuseppe Verdi e la sua casa d’infanzia

A Roncole Verdi, un piccolo paesino emiliano della Bassa, nel comune di Busseto, è visitabile la casa natale di Giuseppe Verdi, dove si respira l’aria di un mondo che vide nascere un bambino eccezionale.

Se potessi corredare di suoni la pagina scritta, non sarebbero le opere del Maestro Verdi a farla qui da padrone, almeno non all’inizio, bensì il vociare indistinto degli ospiti della sua casa natale, immersa nella campagna emiliana, bruna e tranquilla.

Quel casolare dall’enorme tetto spiovente, infatti, era in parte adibito ad osteria e, in parte, a vendita di caffè, zucchero e tabacchi. Tra lo spaccio e la mescita, accompagnata da piatti di zuppe odorose e altre semplici prelibatezze, s’immagina vivo di parole, a volte di musica suonata alla buona dai tanti musicisti ambulanti che andavano lì a ritemprarsi.

Sì, ad accompagnare un articolo che parla di quella casa ci vorrebbero i suoni estemporanei della quotidianità di allora: i cori lontani, provenienti dalle aie coloniche circostanti, e i discorsi dei contadini, l’acqua tirata su dal pozzo adiacente alla più grande delle porte, quella della stalla; il tintinnio dei bicchieri, delle posate e dei piatti sparsi sul lungo tavolo di fronte al secondo camino. È quello, infatti, il tavolo dedicato agli ospiti. Il più piccolo, invece, quello nell’altra sala, accanto alla cantina con le botti, è per la famiglia.

Le due sale da pranzo di casa Verdi

Ma davvero era così netta la separazione?

D’estate, anche il prato d’ingresso, quello dove ora campeggia un mezzo busto del Maestro, era pieno di tavoli.

Un po’ casa, un po’ spaccio, un po’ osteria, un po’ campagna: un piccolo mondo ottocentesco.

Ottocentesco, sì, perché oggi, nel parlare di questa casa, viaggeremo nel tempo: non è il 10 luglio 2024, bensì il 10 ottobre 1813.

Luigia Uttini, di origini piacentine, ha 26 anni e il nono mese di gravidanza è iniziato da un po’. Ancora fila la seta, però, e aiuta il marito, Carlo Verdi, ad intrattenere gli ospiti. Ha un carattere asciutto e fattivo, non incline a facili entusiasmi, piuttosto è devota alla concretezza di un vivere che deve andare al meglio di quel che si può.

Carlo di anni ne ha ventotto ed è più semplice e accomodevole della moglie. Fa di conto egregiamente, ma tra le entrate e le uscite di casa avrà il tempo di rimuginare, con un pizzico di sogno, sulla vita artistica del figlio, quando sarà il momento.

Gente buona, scura e luminosa, ricca e autentica come la terra di cui fa parte. Sembrano folte chiome di alberi dalle radici invisibili, che danzano nel vento della vita: camminano, si muovono, eppure è come se restassero fermi, agili pioppi piantati lì, tra le siepi di marruche e gli orti rigogliosi. Non ci pensano proprio ad andare via. È su quella terra che stanno bene.

«Me vag mia via da che. Che gh’ò bela tüt»

Si canta, si balla fino all’imbrunire.

Anche Luigia balla, nonostante sia donna tendenzialmente seriosa e taciturna; ma ecco che un dolore acuto le trafigge il ventre. La portano nella stanza da letto, al piano superiore, accanto all’anticamera dove Carlo tiene i conti di casa.

La stanza dei coniugi Verdi

Gli uomini, ovviamente, sono banditi da lì. Le urla trapassano le due finestre affacciate sulla chiesa di S. Michele Arcangelo, la stessa che vedrà il piccolo Verdi battezzato, la stessa che accoglierà le preghiere della famiglia, la stessa in cui Luigia, un anno dopo, si rifugerà con il piccolo Verdi, riuscendo a sfuggire ad un manipolo di austro-russi calati violentemente in paese dopo la caduta del regno napoleonico.

Carlo misura ad ampi passi il pavimento, attento a non urtare con la testa il basso trave ch’è sul lato lungo e raggiungendo anche la stanza di fronte, quella della filatura. Avanti e dietro, avanti e dietro.

Finalmente un vagito. Ed ecco che irrompe nella camera da letto, ma viene bruscamente allontanato. Gli basti sapere che è maschio e vada giù dagli altri, ché gli uomini, per una partoriente, sono solo di intralcio.

«Andȇ zo, siur Carl, che l’è sultant in di pe’!»

I gradini che collegano i due piani sono alti e stretti, ma Carlo riesce a volare su di essi senza quasi toccarli. «È maschio!» annuncia agli ospiti rimasti, «L’è masch!». E offre un giro di bevute a tutti, con il vigore della sua gioia tra le mani e un brivido freddo lungo la schiena. È appena diventato padre.

Sì, è nato Giuseppe Fortunato Francesco Verdi. Giuseppe in onore del nonno, Francesco in onore della nonna e Fortunato perché è nato di domenica.

Intanto, per antica promessa fatta a Luigia, alcuni dei suonatori dabbasso, si radunano sotto le sue finestre a suonare. Il piccolo nasce, dunque, avvolto dalle fasce e dalle note.

Un maschio. Due braccia che cresceranno e lavoreranno la terra, deve pensare Carlo; un figlio, ma anche un aiuto.

E l’aiuto Giuseppe lo darà, ma a modo suo, con la sua musica, anche se l’indole contadina, la concretezza, l’autenticità, il vigore della sua terra non lo abbandoneranno mai: «Sono e sarò sempre un paesano delle Roncole».

Visitando quella casa, capitiamo anche in una piccola stanza senza luce esterna, confinante con la stanza da letto dei coniugi Verdi: l’unica finestra è affacciata sulla stalla sottostante. È, dunque, la stanza più calda. In quei luoghi fatti di lunghi inverni il calore, si sa, è un privilegio. Forse proprio per questo è la stanza che i Verdi danno al piccolo Giuseppe. Una stanza per dormire ma anche per suonare. Inseguendo la sua eccezionale predisposizione per la musica, infatti, avevano mandato Peppino, sin dalla tenera età di 4 anni, ad affiancare Pietro Baistrocchi, l’organista della chiesa di S. Michele.

Un paio di anni dopo, non senza qualche sacrificio, Carlo aveva acquistato per il figlio una spinetta, ricevendo il migliore dei ringraziamenti, ossia un volto di fanciullo illuminato dalla gioia.

Ed eccolo lì a improvvisare melodie.

La musica in lui sgorga irruente, anche con un pizzico di rabbia, a volte, se non riesce a trovare gli accordi che ha in testa, e il piccolo picchia con tutte le sue forze sulla tastiera di quella sua spinetta già bisognosa di qualche riparazione, che, ben presto, giunge il tempo di fare. Viene chiamato, dunque, un cembalaro che, effettuato il proprio intervento, non vuole essere pagato se non apponendo sulla spinetta, con semplice orgoglio, una breve iscrizione:

«Da me Stefano Cavalletti fu dato di nuovo questi salterelli e impenati a corame e vi adatai la pedagliera che io ci ho regalato; come anche gratuitamente ci ho fatto di nuovo li detti saltarelli, vedendo la buona disposizione che ha il giovanetto Giuseppe Verdi d’imparare a sonare questo istrumento, che questo mi basta per essere del tutto soddisfatto. Anno domini 1821».

Sentir suonare Verdi è già allora un privilegio per tutti e così avergli accomodato uno strumento.

Non passa molto tempo che prendono a chiamarlo il maestrino, perché il Baistrocchi, a volte, si fa addirittura sostituire dal bambino per intere funzioni religiose. Peppino ha otto anni. E due anni dopo, quando il suo maestro muore, prende il suo posto, portando in casa la discreta somma di 36 lire l’anno oltre qualche extra per matrimoni e funerali. A quell’epoca è già a Busseto per il ginnasio, ma suona a Le Roncole (così si chiamava allora il paese) ogni sabato e domenica e continuerà a farlo per sei anni, fino al suo trasferimento a Milano. Ogni sabato e ogni domenica. A piedi. Sette chilometri ad andare e sette a tornare.

È un bambino intelligente, responsabile, concreto. Appena può aiuta i genitori con le incombenze varie, anche perché la sua sorellina Giuseppa Francesca, di tre anni più giovane, menomata sin dalla primissima infanzia a causa di una grave affezione, può far poco ed è una bocca in più da sfamare. Morirà come è nata, chiusa in una mesta opacità, a 17 anni; la prima di tante morti che toccheranno da vicino la vita del Maestro e che forgeranno il suo carattere titanico, ma anche malinconico e a tratti inquieto, quasi violento, quasi percorso dalle improvvise raffiche temporalesche della sua terra. «La mia giovinezza fu dura», confesserà da adulto in uno dei rarissimi momenti di concessa confidenza.

È questo il retroterra di Verdi, il suo ambiente; queste sono le sue radici. L’intelletto, il talento affondano nel carattere riservato della madre, nei suoi silenzi, ancorché carichi di parole; affonda nella più evidente vivacità paterna, così come nella triste condizione della sorella; e, ancora, nei profumi delle erbe, nei foraggi per i bachi da seta, che è chiamato a raccogliere, nel formaggio e nel vino aromatico di quelle parti.

Per entrare nella casa museo si passa dalla stalla, oggi biglietteria e piccolo negozio. Il giro gode di un’ottima guida: in ogni stanza, infatti, c’è un cavalletto con un tablet dal quale si possono ascoltare storia e curiosità.

Se si ha la fortuna di entrare quando non ci sono molti altri avventori, si può avere la sensazione di viaggiare nel tempo. Quella tavola, quella dispensa, quel letto che vide i suoi occhi per la prima volta aprirsi alla luce, tutto diventa gigantesco e immanente, tutto viene a circondare il presente lasciandovi fluire il passato.

Verdi lascerà Le Roncole molto giovane, come detto, per andare prima a Busseto e, poi, a Milano, a Parigi, a Genova … eppure mai abbandonerà la sua terra d’origine. C’è sempre un ritorno a casa dietro l’angolo dei suoi viaggi, che questa casa sia a Busseto o poco distante da lì, a S. Agata, luogo in cui, ormai famoso, acquisterà un proprio podere.

La casa di Roncole, però, verga l’alfa di quella vita, l’inizio, lo sbocciare impetuoso del suo talento ed è ciò che è chiamata a restituire.

L’inizio, infatti, è un qualcosa che resta dentro, anche da vecchi: si è sempre un po’ i bambini di un tempo, si ha sempre nel cuore la prima casa, le prime esperienze, la prima aria respirata. È così che del suo paese natale possiamo trovare tracce in molte opere, anche le più tarde; e molte altre ve ne sono da scovare.

Pensiamo all’organo, ad esempio. Come abbiamo visto, rappresenta il suo primo approccio alla musica sotto la guida di un maestro e reca con sé l’imponenza del suo passato, della sua infanzia, del suo paese e dell’aspetto sacro della vita. Ebbene, benché non sia uno strumento tipicamente operistico, trova in Verdi piccoli ma significativi inserti in ben sette opere: I Lombardi alla prima crociata (terza scena del primo atto), La battaglia di Legnano (prima scena del quarto atto), Luisa Miller (prima scena del terzo atto), Stiffelio (scena finale), Il Trovatore (ultima scena della terza parte), La forza del destino (seconda scena del secondo atto), e l’Otello nella scena d’apertura, quella della tempesta (sulla partitura lo stesso Verdi annota: «L’organo metterà il registro dei Contrabbassi e Timpani, e coi Pedali suonerà contemporaneamente»). In altre opere, poi, Verdi, per replicare la gamma sonora dell’organo, usa la fisarmonica, o l’armonium, o un gruppo di strumenti. È indicata la fisarmonica, ad esempio, nel primo quadro del primo atto della versione originaria del Simon Boccanegra (nella versione successiva sostituita con l’arpa); l’armonium, invece, caratterizza la quinta scena del prologo della Giovanna d’Arco. Forse, al di là delle inevitabili influenze parigine del grand opéra, con l’organo Verdi ha voluto perpetuare quel tempo lontano che lo aveva visto bambino prodigio nei giorni campagnoli della sua Bassa.

Nel Rigoletto, invece, troviamo il riferimento ad un episodio dell’infanzia molto particolare, a metà tra fatto e leggenda. Pare che un giorno, servendo messa come chierichetto nel santuario della Madonna dei Prati, ad un paio di chilometri da Roncole, Verdi, incantato dalla musica che fuoriusciva dall’organo, si fosse distratto e il prete, don Masini, gli avesse tirato un calcio per richiamarlo al dovere. La cosa piacque poco al piccolo Peppino, il quale, nonostante avesse solo sette anni, saltò come un furetto e replicò violentemente, augurando al prete di essere colpito da un fulmine:

«Ch’at gnìss un fülmin!».

Il fatto è che, otto anni dopo, quel santuario fu veramente colpito da un fulmine e don Masini morì nell’incendio insieme ad altre cinque persone.

Più in là nel tempo, il Verdi adulto avrebbe detto che era stata la volontà di Dio e non la sua maledizione. Fatto sta, però, che il suo Rigoletto canterà: «Sì, vendetta, tremenda vendetta di quest’anima è solo desio… di punirti già l’ora s’affretta, che fatale per te tuonerà. Come fulmin scagliato da Dio, come fulmin scagliato da Dio, te colpire il buffone saprà».

Anche il carattere duro della madre, che, sin dai tempi di Roncole, s’imponeva all’attenzione del piccolo Peppino e che, in qualche modo gli forgia l’animo, troverà spazio nel suo futuro di compositore. Ancora un gancio con il passato, con Le Roncole. Luigia, infatti, abiterà il corpo di Azucena, la zingara de Il Trovatore, l’unica figura materna nell’intera opera verdiana. Azucena è una madre forte e disperata, a tratti crudele, ma salda nelle sue decisioni, fossero queste anche di distacco dal figlio. E non è un caso che il personaggio materno, pur così fortemente legato alla sua infanzia, nasca solo quando Verdi ha trentotto anni, ossia dopo la morte di Luigia e dopo che il rapporto tra Verdi e i genitori s’era ormai gravemente incrinato. Li aveva addirittura allontanati dalla tenuta che aveva acquistato a S. Agata, offrendo loro dimora a Vidalenzo, in una casa all’uopo allestita, con un vitalizio ma anche con le indelebili parole dettate ad un notaio: «Io intendo di essere diviso da mio padre e di casa e di affari. Infine non posso che ripetere quanto le dissi ieri a voce: presso il mondo Carlo Verdi deve essere una cosa, e Giuseppe Verdi un’altra». La madre, dopo un periodo trascorso a casa di Giuseppe nell’inutile tentativo di metter pace tra lui e suo padre, era tornata dal suo Carlo.

La sua infanzia non l’ha mai abbandonato, a quanto pare.

In buona sostanza, visitare la casa museo di Roncole è un po’ come entrare nella vita del piccolo Verdi, esplorare le radici che l’hanno reso l’uomo e l’artista che è stato, con le sue gioie e i suoi immensi dolori, con le sue prime significative esperienze e con la nascita della passione musicale.

Di Verdi è stato detto e scritto di tutto, ma, forse, le diverse sfaccettature del suo animo in quel lungo viaggio verso l’infinito partito da Le Roncole, traspaiono al meglio da alcuni versi immortali, tratti da un componimento di D’Annunzio scritto in sua morte.

E noi, nell’ardor santo,

ci nutrimmo di lui come del pane.

Ci nutrimmo di lui come dell’aria

libera ed infinita,

cui dà la terra tutti i suoi sapori.

La bellezza e la forza di sua vita,

che parve solitaria,

furon come su noi cieli canori.

Egli trasse i suoi cori

dall’imo gorgo dell’ansante folla.

Diede una voce alle speranze e ai lutti.

Pianse ed amò per tutti.

Fu come l’aura, fu come la polla.

Ma, nato dalla zolla,

dalle madre dei buoi

forti e dell’ampie querci e del frumento,

nel bronzo degli eroi

foggiò sé stesso il creatore spento.

In questi versi Verdi diviene zolla che nutre dopo essere stato dalla zolla nutrito. Ha affrontato così i suoi momenti peggiori, del resto, con la fiera solidità delle sue origini, sempre rialzandosi, come quando cadeva in terra da piccolo.

Ecco, la terra.

«Sono e sarò sempre un paesano delle Roncole».

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Un ringraziamento speciale a Carolina Toscani, dell’Ufficio Turistico di Busseto, gentilissima e solerte nell’aiutarmi con la traduzione in dialetto delle frasi che ho voluto inserire nell’articolo.