Schegge d’amore, nudità verità

Il tormento d’essere

Non è la prima volta per Cappella Orsini, ora Fondazione culturale, nonché regno da decenni del genio organizzativo e creativo di quel infaticabile tessitore di relazioni (umane e di ambiti) che è Roberto Lucifero, artista di suo, nonché fortemente centrato su interessi antropologici a vasto raggio. 

Lorenzo Mereu

Non è la prima volta che ad una mostra tematica Cappella Orsini accosta eventi, spazianti in più ambiti, né lo spazio è nuovo all’ospitare eventi teatrali. Ultimamente tuttavia la cosa si va facendo più organica, con vere e proprie rassegne teatrali, sempre tematiche, gestite dal regista Marco Medellin.

E’ il caso della rassegna teatrale legata al De Rebus Amoris Festival (5 Maggio-2 Giugno 2024), che mercoledì 29  ha esibito un fuoco di fila di perle, nella forma del corto, vuoi prodromico allo sviluppo in un testo più ampio, vuoi frutto di una estrapolazione e riduzione rispetto ad un’opera più ampia.

Tre testi di Antonio Mocciola e uno di Sarah Kane, per le regie di Mocciola (due dei suoi testi) e di Giorgia Filanti, su un testo di Mocciola e su Sarah Kane.

Ciò che accomuna i testi (tutti monologhi) è un sofferto denudamento, un tormento d’essere, uno scavo doloroso nella verità, politica o d’anima. 

E sostanzialmente una tensione ribelle al vivere.

Nel primo – La legge dell’amore universale – vediamo la sofferta passione pacifista di un disertore anarchico della prima guerra mondiale (storicamente Bruno Misefari) ai cui sproloqui fa da sponda, testimone muto, in trincea, a terra, un compagno ferito.

Nel secondo – Nel mio cattivo stare – vediamo invece (non è chiaro con quanto di forzatura fantastica) un giovane Leopardi che, vittima di sadismi famigliari, li trasforma in eccitazione sado maso, in delirante onanismo in scena.

Nel terzo – Madre-Perla – è la volta dei tormenti e timori narcisistici di una Joan Crawford quando (1945) che teme di non ricevere l’Oscar, e barricata in casa in finta malattia, tormenta con fantasie flashback confessioni la figlia adottiva di 7 anni, Cristina, personificata in scena da una bambola di pezza.

Ed infine, senza nulla togliere ai testi di Mocciola, lo splendido estratto dal capolavoro di Sarah Kane – 4:48 Psychosis (1999) – qui rititolato Performing 4:48, dove la regista, Giorgia Filanti, condensa e rielabora un suo omonimo intenso spettacolo del 2020, con in scena la stessa interprete, Serena Borelli.

La protagonista del testo è una paziente psichiatrica, ricoverata in clinica, ed il titolo allude all’ora notturna (4:48) in cui, secondo le statistiche, è più alta la propensione al suicidio. La protagonista parla e straparla in modo ossessivo, a se stessa e ad ipotetici altri (in voce off). Lo psichiatra, la terapeuta, un contrastato amore. Irride al formalismo asettico e straniato delle diagnosi e delle interpretazioni riduttive e paternalistiche. Vuole essere ascoltata, interrogata, percepita: non interpretata e sedata. 

E guai a coloro che le hanno dato lì dentro false speranze.

La sua è una disperata richiesta d’amore, di essere ‘toccata’ dalla presenza del ‘Altro’. 

Di essere vista per potersi vedere. Di essere guardata, certificata di esistenza, e scolpita in una identità finalmente non evanescente. 

‘Sei l’unico che mi ha toccato [ … ] Vaffanculo perché mi rifiuti non essendoci mai [ … ] Cavatemi la lingua, ma lasciatemi l’amore!!! [ … ] questo bisogno vitale per cui morirei / essere amata / Muoio per una a cui non importa / Muoio per una che non sa proprio / mi sta spezzando [ … ] guardatemi scompaio / guardatemi / scompaio / guardatemi guardatemi guardate // Una me che non ho mai conosciuto, il volto impresso sul rovescio della mia mente’

Occorre essere vivi, frustarsi in autocoscienza. 

Tremare / lanciare / colpire / spremere / frustare”

Così si apre la scena, in voce off, mentre l’attrice fiammeggia e si contorce in balconata. 

Poi , dopo deliri d’amore e polemiche con la terapeuta, sembra declinare al suicidio, in un meccanico count down verso l’ora fatidica … 100, 93, 84 … 8, 4 … E la sua mente è come invasa dagli scarafaggi (la verità). Allora si carezza il corpo, si contorce, come ad aggrapparsi alla carne, per liberarsi dalle catene della psicosi.

E così via, in un’altalena di stati d’animo, vissuti e rivissuti.

La Filanti ha abilmente estrapolato dal testo, condensandoli, i momenti a più alta temperatura emotiva, dirigendo e montando con perizia le esplosioni vocali e gestuali di quella belva scenica che è Serena Borelli.

Ai mutamenti interni corrispondono mutamenti di colore nei vestiti e nelle parrucche, dal color carne (nudità) –  che apre e chiude – ai rossi, ai blu. E si accompagnano sottolineature luminose, ma soprattutto l’uso del corpo. Serena si torce, si percorre, si accoccola, risorge, fiammeggia, avanza in scena a pugni levati, retrocede lentamente, gli occhi a crocefiggere il pubblico. A voce spiegata, sussurrando, rallentando in silenzi, martellando ironica. Lei e la regista sono corpo unico, e lo spettacolo corpo unico, in un montante ritmico che è lava crescente, e poi melanconica onda a smorire. Insomma, vero teatro.

Torniamo però agli altri testi.

Il primo, sull’anarchico, rimane un po’ statico, predicatorio

Non v’è ostacolo interno. E così pure l’attore (Romano Gennuso), nudo in scena, con a mantello la bandiera italiana, pur facendo del suo meglio, non può che rimanere statico, bandiera declamatoria di un’idea, sia pure altamente condivisibile. 

E la nudità resta astratto manifesto del coraggio della verità.

Il testo su Leopardi è più interessante, anche se esagerato.

Qui l’ostacolo c’è, ed è il silenzio sadico – su cui il figlio scivola impotente – della famiglia che fa da spettatrice alle visite al figlio malato, offerto nudo in pasto alla dissezione.

Inoltre Mocciola è nel suo pane quando può rivoltare il coltello nelle ambiguità e contorsioni dei meccanismi sado maso, perversioni sessuali, ma soprattutto nevrosi del potere. 

Forse essenza stessa del potere come rovescio della frustrazione.

Qui allora presto i fantasmi maschili (padre, fratello) finiscono sullo sfondo, e troneggia la polemica con la freddezza della madre, che, prima provocata con immagini di orgasmi della sorella di Leopardi, alla fine diventa il soggetto di una prolungata masturbazione in scena, agita con spavaldo coraggio e naturalezza disperata dal neofita Lorenzo Mereu, in ciò ad una sua fulgida prima prova.

Particolarmente interessante un momento del testo in cui Mocciola addebita alla madre quasi un odio per tutti

Lo specchio? […] Lo fa per me, dice. E’ un esercizio di accettazione, e di castigo. 

Devo stare, immobile, completamente nudo, a guardare la mia immagine allo specchio. Non posso mai volgere lo sguardo altrove. Né fare un movimento. Finchè lei, presente accanto a me, non decide che può bastare così.

Il rovescio persecutorio dello specchio di Narciso, e con bella idea scenica, approfittando del pavimento trasparente che dà sulla sala di sotto, l’attore, che per tutto il tempo tiene al collo la corda con la quale – schiavo –  è stato trascinato in scena, bianco nudo cavaraggesco, nel buio, avanza fino ad esserne illuminato dal basso.

E ancora

Considera la bellezza come una vera disgrazia, e vedendo i suoi figli brutti o deformi, ne ringrazi a Dio, non per eroismo, ma di tutta voglia. Non procura in nessun modo di aiutarli a nascondere i loro difetti, anzi pretende che in vista di essi , rinuncino interamente alla vita nella loro prima gioventù. Se resistono, se cercano il contrario, se vi riescono in qualche minima parte, ne è indispettita, scema quanto può con le parole

e con la sua opinione i loro successi, e cerca l’occasione di rinfacciar loro i loro difetti.

Sente i fallimenti dei suoi figli con vera consolazione.

Insomma, testo attore regia, qui si incrociano ad un bel fiore, anche se si resta con qualche dubbio sull’ipersessualizzazione dei vissuti leopardiani.

E un fiore risulta l’ultimo testo di Mocciola – Madre-Perla – nelle mani del duo Filanti/Ruggeri.

Lo spazio resta un po’ costrittivo, e il testo sta su una nevrosi isterichina da salotto.

Quindi il movimento dell’attrice viene tutto giocato in verticale, nel tormento capriccioso dei micro-gesti, con la borsa, con la fiaschetta di whiskey, con la figlia bambola, col trucco esagerato e sfatto, faccia tutta bianca, da clown, e rossetto sbavato.

Un clown piagnone, prepotente, patetico, che inscena le sue crisi da pseudo tramonto.

L’altalena dei toni è quella tipica delle dive, e da Teresa Ruggeri gestito al meglio … Vittimismo sul passato (madre anaffettiva, padre molestatore, apprendistato da cameriera in un albergo a ore, con sperma e sangue sulle lenzuola), aggressività di riporto, per senso di colpa, verso la figlioletta adottiva, orgoglio per quanto si è saputo affrontare, civetteria, prepotenza, ipocrisia ed amore per la piccola quando poi l’Oscar arriva.

Serena Borelli

Un cammeo ben inciso, anche se difficilmente paragonabile al finale Kane/Filanti /Borelli. In ogni caso il pubblico risponde con calore a tutto e tutti, e la serata fila via in luminoso crescendo.

La legge dell’amore universale  testo e regia Antonio Mocciola – con Romano Gennuso – Nel mio cattivo stare  testo e regia Antonio Mocciola – con Lorenzo Mereu – Madre-Perla  testo di Antonio Mocciola – regia Giorgia Filanti – con Teresa Ruggeri – Performing 4:48 di Sara Kane – regia Giorgia Filanti – con Serena Borelli – Cappella Orsini 29 maggio 2024

Foto di copertina: Teresa Ruggeri