Memorie e polemiche di un amore controverso
Il mese di maggio è stato – al Teatro di Roma (prevalentemente con allocazione al Teatro India) – il mese di Eugenio Barba e dell’Odin Teatret, con una serie di incontri con critici, conferenze spettacoli laboratori. Un omaggio dovuto, dopo un ventennio di assenza dalla capitale, ad una colonna del teatro di ricerca, guru del cosiddetto terzo teatro (di lui Grotowski diceva che lo aveva tradito bene), cioè quel teatro di gruppo che incrociava l’idea di isola e di comune (di sessanttotesca memoria), con l’idea artaudiana di un teatro oltre il testo, scritto dal corpo dall’improvvisazione, dall’attore che esplode nello spazio, con ritualità sacralità trasfigurazione interiore, crudeltà.
Un teatro spesso politico, e che per principio rivoluzionava lo spazio scenico (spazio di rapporti). Il pubblico non era mai frontale, ma intorno ad una scena, spesso a corridoio, dove i centri dell’azione si articolavano sui poli estremi, costringendo lo spettatore a scegliere, senza mai poter dominare l’intero.
Era un teatro dell’arco di tensione, della corsa dei contrari, come la definiva Barba.
Un teatro corpo, che ti risucchiava nel suo corpo.
Allo stesso tempo era portatore di alcuni stilemi metaforici, dal parlato cantilenato
(in parte dovuto all’intonazione del danese, lingua della maggioranza dei suoi attori), al canto stralunato come punteggiatura straniante, ad una serie di gestualità da teatro orientale.
Infatti l’Odin e Barba da decenni sono anche il perno dell’ISTA (International School of Theatre Anthropology: ISTA), una internazionale itinerante di antropologia teatrale, dove si scambiano esperienze attori e critici da tutto il mondo.
Altri stilemi del suo codice metaforico erano una grammatica dei colori puri (rosso, nero, bianco), e l’uso di maschere più o meno totemiche, scheletrini, croci. Cioè una attrezzeria di suggestione sacra, tra sciamanesimo e cristianesimo.
Ma perché questa lunga premessa?
Perché Barba e i suoi attori storici sono oltre gli ottanta anni, ed è sempre interessante vedere quanta sia la capacità di reggere, innovandosi sì, ma anche conservando la carica dirompente delle origini.
Nello spettacolo cardine di questa rassegna, Una giornata fatale del danzatore Gregorio Samsa – non a caso tenuto in cartellone dieci giorni – di cui qui la mia recensione (Deliri di impulsi tra sogno e prigionia – 13.5.2024), si assiste in effetti ad un rinnovamento, al punto da far dire a molti che non sembrava più l’Odin. Certo. Era una regia a tre, e con un attore di nuova generazione. Ma vi si poteva vedere, attraverso un recupero della centralità del testo, un permanere tuttavia – rinnovato – della dialettica dei contrari, del corpo, dell’arco di tensione.
A fine ciclo invece è andato in scena, per una sola serata (e sospetto non sia un caso) La casa del sordo – Capriccio su Goya, uno spettacolo qui a regia del solo Eugenio Barba, e con ben tre dei suoi attori storici: i due Skeel, ma soprattutto Else Marie Laukvik, uno dei cavalli di razza dell’Odin, oltre che tra i fondatori.
Le aspettative erano alte, ma il risultato in parte deludente, e forse da parte di Barba più un atto d’amore verso la sua attrice – che peraltro ha scritto il testo – che una prova convinta.
Protagonista del testo è apparentemente Goya, di cui si narra la vita, tra successi a corte, periodo napoleonico, scontri con l’Inquisizione, esilio, malattia. In realtà il centro è il rimbalzo che questa ha sulla sua amante e compagna per venti anni, Leocadia Zorrilla (qui Else Marie Laukvik), di 44 anni più giovane di lui, e sopravvissutagli per quasi altri trenta, ma diseredata in favore del figlio di lui, e devastata anni dopo dalla morte della figlia pittrice, appena ventinovenne.
Cresciuta orfana in un convento, Leocadia aveva sedici anni quando cominciò la relazione con Goya, allora sposato. Maritatasi poco dopo a un Ebreo, e dopo cinque anni ripudiata per mala condotta, approda finalmente – ventiquattrenne – alla convivenza con Goya, ora vedovo. Lo ammira, lo accudisce quando diventa sordo, lo segue nella fama e nell’esilio. Ne vede vanità e debolezze. E mal sopporta il figlio di primo letto, e le donne di cui Goya si circonda, come ritrattista di fama.
Eccola quindi raccontare tra esclamazioni enfatiche, immedesimazioni popolaresche, e polemiche ruggiti litanie.
Ora racconta, ora mima la voce dello stesso Goya – ah !! ah !! soi un pinta diablos .. sìììì! dipingo diavoli … beeeeh beh .. grossi e grassi .. Me ne frego del diavolo – punteggiando momenti e tematiche con quadri di Goya che, appesi in scena, gira ed esibisce.
Comincia vestita con un saio monacale, mentre comicamente alla riesumazione della salma di Goya se ne scopre mancante la testa. Poi man mano si sveste, per farsi più popolaresca, mimando seduta i parti della prima moglie di Goya. Infine si aggira pontificando in scena con un abito bianco a coste rosse, quasi da crociato.
La segue una suora (Rina Skeel), accudente – come serva di scena – ora lei ora la personificazione di Goya (Ulrik Skeel), testimone muto per quasi tutto lo spettacolo, seduto a fondo scena, ora silente ora suonando la chitarra.
La scena è centralizzata, ed invasa di catafalchi rossi e viola, a cui appendere quadri e simulacri. Goya è bianco, e man mano tutto vira al bianco, catafalchi compresi.
Solo la suora nera.
La scena è centralizzata, e Leocadia pure, va e viene al centro, va e viene con sapienti cantilenati narrativi, ed improvvise esplosioni di ruggiti, o innalzamenti esclamativi.
Voce gallina, voce bambina, balbettii, strascicamenti, voce roca.
Il tutto costantemente intervallato da dissolvenze salmodianti (molto Odin birignao), narrazioni cantate in spagnolo francese latino, a seconda del tema (successo e amore, esilio francese, Napoleone, l’inquisizione).
Poi, aldilà del frequente registro comico grottesco, pian piano emerge la tonalità del lutto e della polemica, in una narrazione che non è temporalmente lineare, ma con va e vieni, per slittamenti tematici, fino al prevalere del vissuto di lei. E quindi ammirazione, tifoseria, tolleranza, ma anche gelosia repressa, critica, e alla fine, a bilancio, un senso di abbandono, e l’amaro di una rivendicazione emotiva. Ti ho dato la mia giovinezza.
Così i Capricios di Goya diventano anche i capricci della sua vita. Vanità solipsistica, cieca verso la devozione di Leocadia, che la suora alla fine (come in una regressione all’infanzia e impotenza conventuale) mette in trono con un cappello conico da pazzo, da fool.
I colori puri. Le litanie.
Non poteva mancare alla fine il corteo dei matti, in fila su una corda tesa, con Goya (Skeel) che sentenzia, La vita è un ballo in maschera .. tutto è un sogno .. tutti vogliono apparire per qualcuno che non sono .. nessuno conosce se stesso ..
In sostanza.
Sì.
C’è una forma di dinamismo interiore verticale, che pian piano si manifesta. Resta però prevalente un senso generale di staticità, con una narrazione troppo sempre esclamativa, senza che la vicenda avvinca davvero.
Gli stilemi dell’Odin si ripetono, ma arrotolandosi su di sé, con un testo che stenta a scavare, fisso, a onde, in una scena fissa e ripetitiva. E i continui canti in altra lingua rischiano di essere – invece che amplificazioni – puri cerotti scenici.
Con tutto ciò resta sempre la maestria vocale della protagonista, che se per età non può più esplodere in gestualità (ai tempi in molti di loro anche acrobatica), la gestualità tutta riversa nella voce.
Si applaude con rispetto, anche a lungo. Ma non è un’ovazione.
La casa del sordo – Capriccio su Goya – testo Else Marie Laukvik e Eugenio Barba – regia Eugenio Barba – con Else Marie Laukvik, Rina Skeel, Ulrik Skeel -produzione Odin Teatret, Masakini Theatre – Teatro India, 28. maggio 2024
Foto di copertina: Odin Teatret Archives – The Deaf Man’s House – Foto di @Francesco Galli