Novantacinque anni fa nasceva Paolo Poli, attore e geniale fantasista che creò un suo stile a tutt’oggi imitato ma anche inimitabile
23 maggio 1929: novantacinque anni fa nasceva Paolo Poli, icona di gentilezza, di eleganza, ma anche di ironica, sottile e a tratti perfida capacità di analisi; raffinatissimo interprete di tanti personaggi e lui stesso personaggio poliedrico nella sua realtà, nella sua vita assolutamente personale fatta di libri, di cultura, di fantasia, di trasgressione. Della morte non si curava, diceva semplicemente:
«Quando arriverà io non ci sarò più e, quindi, non ci incontreremo».
Ma la sua morte, in realtà, è stata molto più di questo: rappresenta il luogo di memorie sempre vive e l’approdo sicuro per quella sua barca chiamata vita, che ha conosciuto mari e venti e che ha saputo percepire in essi significati e sensibilità.
Il suo accento fiorentino, mai perduto neppure quando viveva a Roma, era adorabile; l’uso di vocaboli raffinati lasciava trasparire la sua grande passione per l’arte e per la letteratura. Ecco la letteratura, i libri. A Pannacci confessò che uno dei primi libri che lesse, da bimbetto, era un libro pornografico prestatogli da un compagno di classe. La madre, maestra montessoriana, e il padre, carabiniere e uomo illuminato, il quale mai ostacolò le sue inclinazioni sessuali, gli consentirono di finirlo, anche se non lo capiva fino in fondo, ma non di tenerlo: quella non era una casa dove potesse albergare.
«Sono convinto» diceva leggiadro «che sull’albero del Bene e del Male invece delle mele c’erano i libri, perché essi volevano essere pari del Padreterno per sapienza».
Vero che lesse un libro pornografico da bambino? Falso? Quando Paolo Poli raccontava episodi della propria vita si percepiva il gusto di scherzare, di scandalizzare. Di sicuro è sempre stato deliziosamente se stesso, con tutte le contraddizioni di una vita ricca di esperienze, sin da bimbo, sin da quando fece il chierichetto e crebbe anticlericale.
I suoi ruoli en travesti resteranno per sempre nella memoria di chi ha avuto la fortuna di vederlo a teatro o in televisione. Quando interpretò Rosamunda di Alfieri, Renzo Tian scrisse su Il Messaggero:
«Dietro l’insistenza dello sberleffo si affaccia il sospetto di un rigore didascalico».
Rigoroso lo era di certo; ed era meticoloso, perfezionista pur in quella sua apparenza di leggiadria e leggerezza assoluta. I genitori gli avevano insegnato a fare ciò in cui credeva, di essere chi sceglieva di essere. E lui fu sempre se stesso.
«Io mi sento molto simile a quel verso di Dante: io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna. Sono un aristocratico artistico. Bisogna stare attenti a indossare un vestito di un colore che non ha nessuno. Io, nella mia giovinezza, ho seguito le mode, ma per poco. Ho subito capito che dovevo indossare qualcosa di originale».
E, infatti, ha segnato il suo tempo con originalità.
Le prime esperienze di teatro iniziarono al liceo con la Compagnia dell’Alberello che affondava le proprie radici nel Teatro della Fiaba, realizzato dalla dama fiorentina Flavia Farina Cini. Ne faceva parte anche Zeffirelli, con il quale Poli strinse una lunga e sincera amicizia.
Con la Compagnia dell’Alberello il Poli ragazzo approcciò testi impegnativi come quelli di Marivaux, Pirandello, Moliere.
Di lì il salto a Cinecittà, dove sostituì Terence Hill, allora noto come Mario Girotti, nel film Le due orfanelle, testo che Poli conosceva bene e che sapeva interpretare persino in francese, essendo stato anche insegnante di francese al liceo Leonardo da Vinci di Firenze.
Inevitabile il trasferimento a Roma, ove frequentò il salotto di Laura Betti, sua anima gemella in una ribelle e profonda amicizia, e conobbe Moravia, Corrado Pani, Ettore Manni, Pasolini, con il quale, tuttavia, ci fu sempre una reciproca diffidente lontananza, nonché molti altri esponenti del mondo della cultura.
Aveva una personalità così spiccata che la sua bellezza effeminata colpiva positivamente tutti, anche se l’epoca in cui approcciava il cinema era quella degli uomini dal fisico possente che affascinavano le cosiddette maggiorate.
Il cinema, però, non soddisfaceva interamente la sua sete di arte. Il richiamo forte era sempre e comunque il teatro, tanto che rifiutò un ruolo nel film 8 e ½ di Fellini, mai pentendosi per la scelta. Roma gli entrò nel sangue, non lo si può negare, ma, come un altro grande fiorentino, Michelangelo, terrà sempre Firenze nel cuore e non cesserà di avere contatti con gli amici lasciati all’ombra di Ponte Vecchio, tra il rumoreggiare pigro dell’Arno: Ilaria Occhini, Ferruccio Soleri … tutti studenti d’Accademia.
Poli alternava gli studi al teatro e dunque impiegò più tempo a concludere il percorso accademico; una conclusione che arrivò con il massimo dei voti un anno dopo essere entrato nella Compagnia genovese di Aldo Trionfo, La Borsa di Arlecchino. Ottenne grandi successi e stigmatizzò aspetti meno noti di alcuni personaggi, tirando fuori la parte nascosta della loro anima, come fu con il Clov di Finale di Partita di Beckett. Dimostrò di sapersi muovere con disinvoltura e bravura sia nei ruoli seri, sia nei ruoli di fantasista, tra canzoni e canzonette, inventando uno stile che sarà per sempre suo. Ed è proprio a Genova che iniziò un sodalizio d’acciaio con Lele Luzzati.
Tra le figure più care nella sua vita c’è Aldo Palazzeschi. Poli, sempre delicatamente irriverente, nel modo che indusse la Ginzburg a definirlo «Un soave, ben educato e diabolico genio del male», ebbe spesso a raccontare un Palazzeschi inedito ai più. Sicuramente una delle voci più importanti del Novecento letterario, ma anche una persona timida e deliziosamente poetica, che, nella sua vita intima si permetteva la vestaglia rossa e l’amore per Filippo De Pisis, il pittore che, secondo Elio Vittorini, concedeva al fruitore del suo messaggio artistico l’illusione della superficialità, scendendo, invero, fino a novemila metri di profondità.
Quando gli occhi di Poli si posarono su un testo di Arthur Adamov intitolato Paolo Poli furono inevitabilmente folgorati. Su due piedi decise di andare in Francia ad incontrare l’autore, il quale, stupito per l’omonimia e conquistato dall’entusiasmo di Poli, gli concesse di rappresentarlo e di farlo a suo modo, introducendo qualche canzone e trasformandolo in un’operetta. Poli amava l’opera e l’operetta. Era cresciuto ascoltando musica e spesso si recava in teatro ad abbracciare il melodramma grazie agli ingressi gratuiti di cui godeva il padre carabiniere. Il Paolo Poli di Paolo Poli fu un successo travolgente.
A partire dagli anni Sessanta, in realtà, approdò anche alla televisione. Lì si impose al grande pubblico, conquistando tutti, uomini, donne e bambini. La soavità con cui si muoveva, l’eleganza con cui si poneva, la sua bella voce, il suo morbido dialetto e la sua intelligenza conquistarono più della sua innegabile raffinatissima bellezza. Giunse al grande successo mediatico dapprima leggendo favole di Esopo ai bambini e, quindi, partecipando a spettacoli di successo come Chi sa chi lo sa o una bella Canzonissima insieme a Sandra Mondaini. Doveva tenere a bada la propria effeminatezza, però. L’era democristiana della Rai non tollerava eccessi bizzarri. La cosa non lo ha mai infastidito, non si è mai sentito sminuito, non ha mai percepito persecuzione dove c’era al massimo un pizzico di monachesimo sociale. Di fronte ad atteggiamenti non comprensivi ha sempre replicato «Raglio d’asino non giunge in cielo». Le parole scandalizzate dei benpensanti lo hanno sempre lasciato indifferente. Ed è proprio con quella frase che, molti anni dopo, risponderà ad una domanda di Serena Dandini sugli scandali sessuali berlusconiani. Di sicuro la sua attenzione si posava solo su ciò che per lui contava, il resto esisteva e ne prendeva atto, ma non turbava affatto la sua esistenza.
A metà degli anni Sessanta Poli spiccò il volo e formò la propria Compagnia, ma non c’era una primadonna, perché era lui a fare entrambi i ruoli. Disegnò con cura la sua forma d’arte e ci riuscì benissimo. Quell’arte da canzonettiere raffinato, da diva dei lustrini sarà sua, soltanto sua. Ancora oggi lo è. Certo, abbiamo conosciuto altri attori e cantanti che si sono dilettati en travesti, ma mai nessuno con la sua classe e la sua ironia. Inventò il suo teatro e riuscì ad imporsi nonostante allora imperversasse la sperimentazione impegnata, il naturalismo più sfrenato. Proprio in quel momento teatrale lui mise in scena le sue profanazioni letterarie, come le definì il critico De Monticelli, colte da poesie e pagine di letteratura a formare un fil rouge che componeva lo spettacolo.
Tutto andò bene fino ad un momentaneo crac finanziario dovuto all’insuccesso di Un Milione ispirato alle avventure del signor Bonaventura, che Poli fece emergere più nella tragicità della sua vita che nella comicità delle sue avventure, disattendendo le aspettative del pubblico e della critica.
La Compagnia si sciolse.
Ma Paolo non era tipo da perdersi d’animo e l’anno seguente uscì un suo spettacolo, Rita da Cascia, con un cast tutto maschile, cosa che, unitamente ad alcuni contenuti, gli costerà più di qualche critica di blasfemia. È una parodia, in realtà, ma pur sempre la parodia della vita di una santa. Strehler e la Cortese andarono a trovarlo in camerino, a Milano, dove aveva riscosso un grande successo, e, pur avendo apprezzato lo spettacolo, ne sconsigliarono la rappresentazione romana. Roma è pur sempre la sede del papato, il luogo per eccellenza della cristianità! Ma Poli non si fermò e debuttò al teatro Delle Muse. Il pubblico apprezzò, ma l’allora on. Oscar Luigi Scalfaro, futuro presidente della Repubblica, promosse addirittura un’interrogazione parlamentare per cassare quello spettacolo tanto irriverente nei confronti di S. Rita e del cattolicesimo in genere. Come sempre accade, però, la critica feroce e il polverone che ne consegue fecero da cassa di risonanza e il pubblico curioso affluì in sala. Quarantaquattro repliche prima del blocco da parte delle autorità; un blocco di quasi dieci anni prima del ritorno di quello spettacolo sul palcoscenico.
Il Sessantotto lo vide a Torino ad interpretare Il suggeritore nudo di Marinetti. Quattro passi nel Futurismo accanto ad una splendida, talentuosa Milena Vukotic, con la quale tornerà più volte a recitare, sia a teatro, sia in televisione, come ne I legami pericolosi del 1988 o nella riduzione de I tre moschettieri e in Paradosso. Tra loro nacque un legame profondo, un’amicizia inossidabile, una reciproca, ben riposta ammirazione.
Il teatro rientrò nella sua vita come se la Rita da Cascia non avesse mai avuto la politica democristiana contro.
Shakespeare, Lorenzo il Magnifico … Le opere dei grandi classici si alternavano ad altre contemporanee. Portò in scena persino la politica, sebbene sempre con il suo ironico savoir-faire. Nel 1971, infatti, fu la volta de L’uomo nero, con protagonisti tre fratelli, uno reduce mutilato della Grande Guerra, il secondo socialista impegnato e il terzo fascista buono. Il fascismo fece parte della sua infanzia. Non lo amò, ma si pose di fronte ad esso come fa lo storico:
«Quello che è successo quando io ero giovane ..» disse sempre alla Dandini. «Non è che io rimpiango Hitler, però quella è stata la mia giovinezza. Voglio capire cosa è accaduto. E si capisce più tardi. Mentre si vive non ci si rende conto. Il disegno storico è difficile a farsi. La gente si trastulla nell’attualità».
Dal 1974 il suo teatro acquisì un tratto familiare, poiché iniziò a lavorare con la sorella Lucia, cui era e rimase sempre molto legato.
È del 1975 anche un’iconica interpretazione radiofonica dell’imperatore Eliogabalo per Le interviste impossibili di Luigi Malerba.
Recitò fino a tarda età. Spettacoli fantasiosi e puntualmente piccanti; matrioske in cui trovare diversi piani comunicativi, a saper leggere tra le righe dei testi e delle scenografie. Quando lo spettacolo scorre nelle vene, del resto, non ci si può fermare.
La sua vita pubblica, tuttavia, non si esaurì nel teatro, o nel cinema, o nella televisione. Lo seguiva ovunque. Paolo Poli catalizzava attenzione. In particolar modo suscitava interesse la sua effeminatezza, che portava seco come un bel bagaglio, una borsa elegante che lo contraddistingueva dagli altri. Inevitabile, dunque, che ne abbia sempre parlato.
L’omosessualità, quando era ragazzo, era un tabù, ma non lo è mai stato per lui. E l’ha sempre vissuta con una serenità estrema, cosa che dà la misura della sua intelligenza e della sua titanica personalità.
«L’uomo, anche quando è frocio e va fuori e sculetta e lo pigliano per il culo, è contento di essere riconosciuto».
Ciononostante ha sempre preso le distanze da certi cliché; ha amato essere se stesso ma ha anche invitato tutti a fare lo stesso, senza incasellarsi necessariamente in un ruolo, in un settore, in una definizione. La vita, quella vera, è senza definizioni.
Essere un’icona gay lo infastidiva.
«Una volta son venuti a Firenze due giovanotti e mi han detto: Ci sposi, per favore? Gli ho detto: Scambiatevi l’anello. Ecco, via: siete sposati! Non me ne frega nulla e non voglio essere un modello di riferimento per i gay».
E questo suo rifiuto degli schemi sull’omosessualità si percepisce nettamente da qualche altra pungente stoccata:
«Il matrimonio è orrendo, per me. Uno è omosessuale per trasgredire mica per sposarsi. Sì, ci sono le convivenze, le amicizie, i modus vivendi, ma vaffanculo a tutta questa burocrazia. Se mi volevo sposare mi trovavo anche io una brava ragazza, certo non mi mancavano».
E ad una domanda sul segreto desiderio di nascere donna replicò:
«Ma per carità! Codesto lo devi chiedere a Platinette, non a me. Io faccio i personaggi maschili o femminili a seconda. Non ho mai sentito la diversità. Oggi parlano: Teatro al femminile, Letteratura al maschile … E quando mi chiedono dell’omosessualità … La letteratura … Ma, Dio mio, Proust dove lo metti, fra le lesbiche o fra i froci?»
Eleganza e stile lo hanno sempre contraddistinto. «Io adoro Fellini» diceva «perché nei suoi film non si vede mai una roba che sia dell’Upim». Poi, però, soprattutto quando parlava dell’omosessualità, usava appositamente termini un po’ forti, quasi a svilirne la portata offensiva che altri avevano attribuito ad essi. E questa è sublime intelligenza.
Diceva sempre che la sua valigia era piccolissima, perché portava con sé solo l’essenziale, niente foto, niente amuleti: poche cose e le scarpe ordinatamente di lato. Di sicuro il suo bagaglio era leggero, ma ciò che lasciava in ogni luogo accarezzato dai suoi spettacoli, aveva il suo peso e la sua ricchezza. Non è un caso se ancora oggi lo ricordiamo con l’affetto di un pubblico un po’ suo amico e un po’ suo orfano.