Da un’idea originale di Jean-Claude Penchenat, al Teatro Vittoria “Le Bal” di Giancarlo Fares e un’Italia che non balla.
Probabilmente chi si accinge a leggere potrebbe pensare che chi sta scrivendo sia un purista delle scene; che abbia bisogno di identificarsi in canoni tradizionali (come l’attorialità recitata) per definire cosa sia teatrale e cosa non lo sia. Vi assicuro non vi sarebbe di più sbagliato!
Le parole, d’altronde, sono spesso così ingannevoli; fuorvianti. Attraverso di loro «crediamo di intenderci, ma non c’intendiamo mai!» – diceva l’immenso Pirandello. E ancora, come egli stesso affermava: «come possiamo intenderci se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro?». Nella comunicazione, difatti, entrano in gioco talmente tanti strumenti che quella parlata d’altronde può rivelarsi marginale. Ed è proprio su quest’asserzione che la straordinaria Pina Bausch ha fondato il suo Tanztheater, della cui matrice certamente l’adattamento di Giancarlo Fares ne risente.
Da un’idea originale di Jean- Claude Penchenat e dopo il successo, nel lontano 1983, del film Ballando Ballando per la regia di Ettore Scola, Giancarlo Fares porta sulle scene teatrali una propria versione originale di Le Bal, riproponendone il format originario e l’idea narrativa del successivo adattamento cinematografico, con l’intento di raccontare – e far rivivere – la storia d’Italia e degli Italiani. Un racconto privo di parole e di cui fosse la musica il linguaggio attraverso cui scrivere la drammaturgia, veicolata dalla corporeità performativa degli attori. Un intento artistico, il suo, lodevole di certo; ma che lascia qualche interrogativo sul suo esito.
Premettendo la consapevolezza di non trovarsi di fronte a dei professionisti della danza, i danzattori (come li chiamerebbe la nostra Pina Bausch) si muovono in scena all’interno di una capsula spazio-temporale, la balera: questo, luogo caleidoscopico di volti, personalità, incontri, emozioni. Luogo dalle facili illusioni e disillusioni. Luogo delle mode e delle tendenze.
Una performatività, quella degli attori, sincopata e iterativa che purtroppo non veicola con la giusta intensità e dirompenza l’intento narrativo e drammaturgico registico. Intento, sì, perché quello che doveva prospettarsi un viaggio musicale immersivo lungo gli anni (per l’esattezza dagli anni Quaranta fino all’avvento del nuovo millennio) che hanno segnato e caratterizzato la storia d’Italia, sembra invece risolversi in una carrellata musicale passando in rassegna quelle melodie che appartengono alla nostra memoria collettiva (e non solo) suscitando sicuramente del sentimento nostalgico tra gli astanti. Forse, fin troppe le storie da raccontare; le immagini da evocare, che si è finiti per lasciar spazio ad una spiacevole sommarietà (a partire dalla dilatazione scenica di alcuni quadri, passando per i repentini salti temporali in altri). Un’esperienza indiscutibilmente godibile, ma che forse andrebbe rivista affinché possa realmente esplodere coinvolgendo il pubblico passo dopo passo.
Le Bal. Da un’idea originale di Jean-Claude Penchenat. Regia di Giancarlo Fares. Con Giancarlo Fares e Sara Valerio. E con Riccardo Averaimo, Giulia Bellazoni, Alberta Cipriani, Manuel D’Amario, Alice Iacono, Francesco Mastroianni, Pierfrancesco Perrucci, Maya Quattrini, Pietro Rebora, Viviana Simone. Coreografie di Ilaria Amaldi. Light designer, Alessandro Greco. Sound designer, Giovanni Grasso. Scene e costumi, Saval Spettacoli. Sarta di scena, Marina Sarubbo. Una produzione Compagnia Mauri Sturno, Lea Production, Saval Spettacolo. Teatro Vittoria, dal 7 al 19 maggio.
Immagine di copertina: ©Damiano Sordi