Tensioni, ormoni, abissi, sirene

Il richiamo d’un sogno impossibile

Opera vincitrice del festival InCorti Artemia 2023, e ora nella versione lunga sempre all’Artemia (Roma, 3-5.5.2024)  – C19H2802, o come avere le palle – del giovane autore padovano, Riccardo Rampazzo (suoi testo e regia), è una intelligente e promettente prova di scrittura – testuale e scenica.

Il linguaggio del titolo, ‘come avere le palle’  potrebbe orientare ad una interpretazione riduttiva, giovanilisticamente provocatoria. E in parte ci sta. Crisi generazionale dell’identità sessuale e latitanza di paternità. Del resto lo stesso autore dichiara essere il testo un tentativo di capire cosa fa di un maschio un maschio. Solo per rendersi conto poi che forse mascolinità e femminilità non esistono. Un dubbio che in realtà sta già, in modo criptico nella formula che apre il titolo, C19H2802. Si tratta infatti della formula molecolare del deidroepiandrosterone, ormone che sta alla base della produzione sia del testosterone che degli estrogeni, e quindi sia dell’universo maschile che femminile.

Le identità non sono quindi un destino biologico, ma un sofferto gioco di specchi, un incrocio di fantasie soggettive e fantasmi sociali. Un viaggio, e a ciascuno il suo, verso un oltre che ci divora.

Ma l’identità sessuale è anche il mandato paterno, la missione del senso, e la sessualità la metafora del coito con l’esistenza ed un suo possibile senso. E l’esistenza ed il suo senso, sono performance o amore ? O viaggio a perdere verso l’impossibile, un canto delle sirene a cui non si può non cedere, e che sarà sempre e comunque sconfitta ? Quello che conta è il viaggio, diceva il poeta, non Itaca, ed Ulisse volle ascoltare il canto, ma legato, per non bruciarsi al fuoco dell’illusione.

Tutto questo si rincorre nel testo, per piani paralleli, dove spesso le azioni sono correlativi oggettivi di altri piani di senso, spesso simbolici. E questa è la sua pregnanza ed il suo valore, questa pluralità di incastri, di slittamenti ambigui continui.

L’altra dote è la tensione ritmica, che è al contempo tensione erotica, di disperazione e ricerca, e tensione di minaccia, incombere dell’abisso.

I due protagonisti non hanno l’ilare e mesta rassegnazione dei clochard di Aspettando Godot. La loro sfida al senso è guerriera e angosciata, è una sfida per la vita o la morte, un’ansia di vendetta e riscatto, come nell’Achab di Moby Dick(Melville, 1851).

E non cito Melville a caso. 

Intanto, sul piano di realtà, la storia è quella di due pescatori in crisi, che si allontanano in mare per una disperata spedizione di pesca, il fallimento della quale comporterebbe il fallimento del loro banchetto al mercato, e la vendita della loro barca. La loro sfida alla vita è primariamente questa, ma certo il successo nel lavoro è anche il presupposto per potersi sentire uomini, e quindi maschi, e quindi poter conquistare una donna, in questo caso una ragazza al pub, Anna, dove Gu spesso si ubriaca, e che poi capiranno essere la meta di entrambi. Il più cocciuto e lottatore in tal senso – quello più duro, contrapposto a Loris, dolce e sognatore – è Gu. Per lui è anche un debito a essere simbolicamente uomo per mandato paterno, padre che in un suo flahback parla così “Figlioooo! figliooo .. ti devi abituare .. i cacciatori di balene .. Guardami adesso !”

Gu sta qui ricordando un momento in mare col padre, da ragazzo, quando si stava lasciando sfuggire la preda (il pesce volante .. 30 kg .. 13 euro al chilo).

E per quanto riguarda la sfida col mare, il destino, la natura, ancor più preciso il riferimento quando Gu dice rabbioso e disperato ad Anna (forse per ammorbidirla al desiderio) che non tornerà più al pub, perché, “Achab deve vendere la sua barca ..”.

Per la parte realistica, tra miseria ed orgoglio, verrebbe in mente anche Il vecchio e il mare (Hemingway, 1952), se non fosse che lì la caccia del vecchio in parte riesce, senza l’inabissamento tragico di Achab in Moby Dick. E sempre per stare a possibili equivalenze, sovviene anche Gita al faro (V.Woolf, 1927), per l’ansia del figlio, in barca, di corrispondere alle aspettative del padre.

Ma torniamo al parallelismo dei piani e al correlativo oggettivo.

I due in mare hanno preso, dopo un certo sforzo (Loris voleva mollare, ma Gu glielo impedisce) solo una grossa ombrina. Non è il pesce sognato, mitico (non si sa quale), che più avanti coinciderà in modo ambiguo con una sirena. Ok. Ma il lavoro è lavoro, e a più riprese l’azione ritmica di Gu di sventrare e pulire l’ombrina  “prendo taglio tolgo tutto” si contrappone alla logorrea sognante di Loris.

Non è un caso, ma una inquietante anticipazione simbolica, un correlativo oggettivo della violenza a seguire. Mentre Loris ignaro sogna come corteggiare Anna, Gu ci ha fatto l’amore violentemente al pub. E’ ossessionato dal guidare l’eccitazione di lei, dal mostrarsi maschio. Lei gli morde le labbra a sangue, lui le stringe il collo, fino ad ucciderla per sbaglio. E più avanti, mentre sono in barca i due, che litigano sul prendere l’arpione per arpionare la preda, Gu finisce arpionato da Loris, e muore annegato. Caso?  Gelosia (aveva intanto capito che Anna e Gu erano stati insieme)?

L’ombrina sgozzata è ed anticipa dunque ossessivamente Anna, ed è lo stesso Gu, e forse è tutti noi, nel circolo di eros e morte a cui la vita chiama. 

Ed infatti alla fine Loris – rimasto solo e triste, colpevole, ed esule del senso e del sogno, seduto a fondo scena – viene coperto, al buio, dai due amanti morti, con una giacca bianca. E mentre dietro di lui si baciano a luce rossa, e svaniscono, lui rimane come una statua magrittiana del dolore, a volto coperto, bianco nel buio, mentre si tocca il petto retroilluminato da sotto la giacca, come un cristallo nel buio, e si ode ritmico un battito cardiaco.

E qui entriamo anche nella scrittura scenica.

Rampazzo è sintetico e minimale nell’uso dei corpi e dello spazio, ma gioca abilmente su luce e prossemica. Così, nei momenti culminanti, spesso gli attori stanno faccia a faccia (quasi toccandosi), mentre in altri sono in controcanto parallelo su sfondo e primo piano. 

La luce è usata con grande espressività da loro stessi da sotto il volto, con effetto isolante e trasfigurativo, espressionistico. 

Quindi, controcanti, parallelismo, ritmi ossessivi, luminescenze.

Gli attori? Bravi tutti, tra energia e sbigottimento, un recitato limpido, semplice, non accademico. 

In particolare comunque splendido il mimo verbale – faccia a faccia, in rivissuto presentificato (alternando descrizione esclamazione commento) – del rapporto tra Gu e Anna, dove spicca Gu (Leonardo Cesaroni), esibendo un vorticoso e virtuosistico crescendo di eccitazione volontaristica e disperata, fino all’urlo, nell’ansia tragica della performance.

Urlo. Urlo e malinconia.

E mentre si applaude rimane sullo sfondo il canto della sirena, che a più riprese accompagna e tormenta lo spettacolo, la sirena della strada giusta che non esiste, dell’oltre che chiama e a cui non si può rinunciare, ma che resta solo un odore, un profumo di sogno e di violenza, una tensione irrisolta.

C19H2802, o come avere le palle – Scritto e diretto da Riccardo Rampazzo – Aiuto regia: Giulia Ravelli – Con: Leonardo Cesaroni (Gu), Paolo Sangiorgio (Loris) e Sara Younes (Anna) – Un progetto di “Lidi precari” – Centro Culturale Artemia dal 3 al 5 maggio 2024