Ingenuità, perversione, frustrazione, ambiguità: gli specchi del potere tra Mann, Hitler e Al Capone.
Interessante metaforico fluido ed ambiguo l’ultimo spettacolo di Giancarlo Sepe, Femmininum Maskulinum, (Roma, 3-21.4.2024) che oscilla tra il cabaret, il musical ed il teatro danza, slittando, qua e là, e verso il finale, a pochi momenti di parlato.
Ne viene fuori un inquietante affresco del progressivo slittamento della gioiosa polimorfa creativa democratica e perversa Repubblica di Weimar dalla libertà all’avvento del nazismo, che con quella perversione, pur esorcizzandola, mantiene un controverso e fascinato rapporto, che si potrebbe individuare, qui come in Psicologia di massa del fascismo (Wilhelm Reich ), in una vena di cameratismo omosessuale e di succubità al materno. Ne è l’emblema la figura di Hitler, che da quando fa la sua apparizione in scena è insieme inquietante ed isterico come nella realtà fu.
Tiene in braccio una enorme rosa rossa, e tesse un silente ed ambivalente rapporto con Thomas Mann, premio Nobel nel 1929 e, seppur tardivamente, critico del nazismo, poi esule negli Stati Uniti.
Mann, come pure Billy Wilder, incarnano anche i pochi momenti di sonoro non affidati alle canzoni, se si esclude l’urlo di disperazione che una lei rivolge al suo amante, Franz, che forse fa una brutta fine, o forse diventa nazi e gay, nella scena che precede immediatamente la comparsa di Hitler, come bianco volto illividito al colmo di un manto nero che pian piano viene espressionisticamente e mortuariamente levato a coprire tutta la scena, come nuvola di tempesta ed al contempo tramonto della democratica Repubblica di Weimar.
Del resto a buon titolo Giuseppe D’Errico nella sua recensione, parla di musical mortuario, e di danza macabra di corpi.
Il tono mortuario di fondo è espressionisticamente preannunciato dal colore dominante dell’apparato scenico, che nel binomio di un fosco rosso e nero mima l’intreccio che dalla Weimar notturna libertina e libertaria porta al rosso nero (sangue e morte) della bandiera nazi con svastica.
Tuttavia, prima che slitti a perversione e morte il quadro scenico si muove con una leggerezza cantata che ricorda l’ironia dei balletti di Pina Bausch.
Così si susseguono leggeri quadri viventi ritmici, dalla folla in frenetico movimento per le strade, al dejeuner sur l’herbe domenicale, dove su un telo per terra mimano, con rumori d’acqua in playback, i giochi delle bagnanti, poi sospese su cubi, a mimo di lezioni di nuoto.
Lo spettacolo tuttavia – nella sua genialità visivo sonora (fluida ed indefinita nelle transizioni e nei significati) – ha come caratteristica la cifra della compresenza degli opposti.
Quindi sì, la Weimar gaudente e leggera delle domeniche balneari, della folla in strada. Ma già all’inizio dei segnali incrinano il quadro. Comincia infatti con due seduti nudi in avanscena (la libertà) che poi si vestono e si abbracciano.
Poi però uno dei due, dopo essersene andato, ricompare, e l’altro gli mette al braccio la fascia con la svastica.
E anche la musica iniziale aggiunge spettralità in controcanto. Non sono ancora le canzoni anni ’20-’30 che poi accompagneranno le scena successive, con descrittivismo d’epoca. Sono musiche moderne, stridenti ed inquietanti, di Aaron Martin e Gyorgy Ligeti.
La questione degli opposti, del resto (cioè del male latente nella luminosa repubblica post bellica), e dell’ambivalenza tra condanna e attrazione è bene esemplificata nello spettacolo da due aspetti; il rapporto scenico tra Mann e Hitler, e il mischiarsi – voyeuristico e non solo – dei nazi al mondo notturno della perversione e dei bordelli.
Si pensi del resto come a lungo Hitler abbia tollerato la palese omosessualità del corpo paramilitare delle SA di Rohm, tramontato solo con la notte dei lunghi coltelli, nel giugno del 1934.
Opposti ed ambiguità. Impotenza dell’ideologia e ricorsi storici. Sepe sembra darci messaggi sull’oggi.
Ma vediamone qualche esempio.
Subito dopo il simbolico avvento di Hitler – col telo che copre tutto – ecco esplodere nella penombra due forti momenti espressionistici, in perfetto stile Grosz. Prima si apre una porta, che gronda di volti assiepati (Le masse alienate? Conculcate e minacciate? Conformiste e controllanti, incombenti e soffocanti, come nel Processo di Kafka/Orson Welles ?). E a cosa assistono ? Ecco due donne seminude in scena, a luce livida, torcersi ed urlare, imprigionate da dietro dall’abbraccio di maschi violentatori.
Potere e misoginia maschilista, e Thomas Mann, come istanza della ragione (un flemmatico ed intenso Pino Tufillaro), che consola le donne.
Ma subito si apre un altro scenario. Quattro specchi a fondo scena, intervallati, e davanti e dietro scene da bordello, omo e lesbo. E ora Mann non è più il bene, ma, seduto accanto a Hitler, osserva.
Hitler e Mann, poli opposti che si specchiano nelle stesse perversioni e nella stessa ipocrisia.
Forse perché Mann, come molti tedeschi, non seppe vedere per tempo il pericolo del nazismo, e a lungo fu una colonna della cultura conservatrice. Si pensi alle Considerazioni di un impolitico (1918), manifesto della rivoluzione conservatrice tedesca, in difesa dei concetti di guerra, patria, volk, kultur, contro la civilizzazione e la democrazia occidentale moderna.
Non ingannino quindi il Nobel e la sua fuga negli USA, forse più per proteggere la moglie ebrea che per vere pulsioni libertarie.
Così, in sequenza, lui e Hitler guardano una trans che canta una canzone sentimentale in italiano, e poi assistono ad un accoppiamento lesbico. Poi Mann prende appunti davanti ad una cantante con la bandiera americana, e lui e Hitler si guardano, si presentano, si danno la mano, ed infine si abbracciano con silenziosa intensità quasi omosessuale. E quando infine Mann se ne va, Hitler lo saluta con nostalgia, come un triste amante, sventolando non un fazzoletto, ma la bandiera americana. E non a caso poi – prima che in una scena lo appendano morto – ha un simbolico colloquio sulla necessità degli ideali con Al Capone.
Come a dire, con Il gattopardo, o con L’opera da tre soldi, che tutto cambia perché nulla cambi, e che i giri della storia sono solo consegne ad un nuovo testimone della solita logica della delinquenza e della violenza eretti a sistemi di potere.
Molte altre scene potremmo descrivere, o soffermarci sul piacevole tessuto di canzoni anni ’20-’30 (in tedesco e inglese) che innervano ed alleggeriscono il fosco quadro.
Restano l’impressione ed il senso generale.
Una fulgida tessitura di lampi scenici e gestuali (con uno splendido corpo attoriale e di ballo, abile nella postura, nel canto, nel coordinarsi), un affresco di luci e tenebre, in un liquido brodo musicale.
Se ne esce storditi, avvolti, pensanti, ricchi di un di più, dolenti per la botta, ma sublimati dall’estetica.
Un cabaret più che uno straniamento brechtiano, dove si viene condotti per sentieri infidi, con ironia e mestizia. E si conferma il magistero di orchestratore di corpi e carnalità pensante del vecchio avanguardista, un Giancarlo Sepe mai al tramonto, e forse ancor più maturo.
Femmininum Maskulinum di Giancarlo Sepe – con Sonia Bertin, Alberto Brichetto, Lorenzo Cencetti, Chiara Felici, Alessia Filiberti, Ariela La Stella, Aurelio Mandraffino, Giovanni Pio, Antonio Marra, Riccardo Pieretti, Alessandro Sciacca, Federica Stefanelli e con la partecipazione di Pino Tufillaro – musiche Davide Mastrogiovanni | Harmonia Team – scene Carlo De Marino – costumi Lucia Mariani – disegno luci Javier Delle Monache – assistente costumista Isabella Melloni – scene realizzate dal Laboratorio di Scenografia del Teatro della Pergola – macchinisti realizzatori Duccio Bonechi, Cristiano Caria, Francesco Pangaro, Filippo Papucci – produzione Teatro della Toscana – foto di scena Manuela Giusto – Teatro La Comunità, Roma 3-21 aprile 2024
Foto di copertina: Riccardo Pieretti