Intervista all’ ex ambasciatore d’Italia in Armenia, Bruno Scapini
Tra la Realtà e la Fantasia emerge in questi ultimi tempi l’opera letteraria dello scrittore Bruno Scapini, dopo circa quarant’anni di carriera da diplomatico (è stato Ambasciatore dell’Italia in Armenia), con la pubblicazione dei suoi romanzi che possono essere annoverati nel genere da lui stesso denominato fantapolitica.
Scopriamo di cosa si tratta attraverso un’intervista all’autore e al personaggio pubblico che egli rappresenta.
Che cosa ha significato, in primo luogo, formarsi come diplomatico e, in secondo luogo, esercitare la Diplomazia?
La Diplomazia è una funzione. È il mezzo preferenziale attraverso il quale gli Stati si relazionano tra loro e agiscono come soggetti di quella che chiamiamo “Comunità Internazionale”. Da ciò deriva allora, a mio avviso, una diretta conseguenza: che formarsi come diplomatico significa innanzitutto aprire la mente e guardare al mondo come ad un grande “insieme” di soggetti di cui comprendere le attitudini, i punti di forza e le vulnerabilità. Ma significa anche – e non è aspetto marginale, anzi, lo riterrei imprescindibile – coglierne quella intima essenza dei popoli la cui conoscenza e percezione ci induce in fondo a condividere le esperienze di una necessaria convivenza.
Esercitare poi la funzione diplomatica è certamente una professione fonte di grande soddisfazione. Si agisce in nome e per conto del proprio Paese, lo si promuove e si cerca di rappresentarne al meglio le peculiarità e caratteristiche.
In un’interessante intervista rilasciata a Visione TV si parla di Diplomazia come strumento di Terrore e di ‘Diplomazia della Violenza’, che cosa significa?
Al riguardo tengo a precisare che la locuzione non è frutto della mia inventiva, bensì espressione introdotta da ricercatori di geopolitica fin dai tempi della “Guerra fredda”. Tempi passati ormai, ma non del tutto trascorsi purtroppo, vista la situazione di confrontazione tra Est e Ovest che ci viene oggi riproposta. Per “Diplomazia della violenza” si intende, quindi, riferirsi a quel particolare modo di utilizzare l’arte diplomatica facendo opportunamente leva sullo strumento della minaccia. Che questa sia implicita o esplicita poco importa. Il fine è manipolare il rischio di infliggere “sofferenza” all’avversario, non ricorrendo direttamente alla violenza, ma minacciandola. In fondo si tratta non di prendersi direttamente con la forza quello che si vuole, ma indurre l’avversario a dartelo in qualche modo convincente. È, dunque, la paura l’elemento chiave su cui fare perno in questo, chiamiamolo pure, “gioco” della diplomazia.
Nella Sua lunga carriera diplomatica l’incarico più importante è stato senza dubbio quello di Ambasciatore italiano in Armenia: questo le consente di conoscere molto bene il popolo Armeno e le vicende che lo hanno coinvolto. Mi piacerebbe ci presentasse questo popolo al di là delle traversie che lo hanno attraversato. Come ha spiegato in una articolata intervista rilasciata a RTV 365 di Capodistria cosa ha amato e tuttora ama di più in questa gente?
L’Armenia, come giustamente Lei ha rilevato, è il Paese che più mi ha affascinato in tutto l’arco della mia Carriera. L’aspetto che mi ha fin da subito colpito è la forte prossimità di questo popolo ai modi di sentire italiani. In fondo c’è una grande cultura e una grande Storia che accomuna i due Paesi. Fondamentalmente cristiani fin dai tempi più antichi, armeni e italiani condividono in fondo la stessa visione del mondo interpretandolo con gli stessi canoni. Molto simili sono le tradizioni familiari, il gusto per la bellezza, i valori spirituali e le attitudini all’arte. Solo un esempio: grande è l’inclinazione degli armeni per l’arte lirica, quella del bel canto, che è del resto una tipica espressione della cultura musicale italiana. Ecco, queste sono le ragioni che mi inducono ad apprezzare il popolo armeno.
Il fatto che l’Armenia sia stato il primo paese ad adottare il Cristianesimo, come ha contribuito nelle relazioni con i Paesi confinanti? Si potrebbe parlare anche di una questione religiosa?
Sì, l’Armenia ha adottato la religione cristiana fin dai tempi più lontani, anticipando addirittura l’Imperatore Costantino di un decennio all’incirca. E questo è probabilmente il fattore principale che ha inciso nel corso della Storia sulla formazione di una comune spiritualità con l’Italia determinando quelle affinità elettive che ancora oggi riscontriamo tra i due Paesi. Ma il fatto di essere un Paese cristiano ha indubbiamente inciso, e negativamente, sul tipo di relazioni intrattenute con i vicini di casa. La diversa connotazione religiosa di costoro, di credo musulmano, ha, infatti, determinato un netto divario in termini di sensibilità e di interessi con loro. Oggi l’Armenia, contrariamente al passato, quando era un Regno lambito da più mari (dal Mar Nero, dal Mar Caspio e dal Mediterraneo) è diventata un piccolo fazzoletto di terra incuneato nel Caucaso Meridionale, ed è, suo malgrado, circondato da Paesi islamici particolarmente aggressivi, come la Turchia e l’Azerbaijan, che ne minacciano l’integrità territoriale. Un elemento, questo, che implica una seria vulnerabilità di cui il Paese deve tener conto obbligatoriamente nel gestire al meglio la sua politica estera.
Dal punto di vista storico-politico, invece, si è occupato della “questione Armena” ai più sconosciuta, attraverso il suo primo romanzo Operazione Akhtamar, titolo che fa riferimento a una antica leggenda armena, che cosa narra questa leggenda?
Con il romanzo intitolato “Operazione Akhtamar”, mia opera prima, ho voluto denunciare il grande dramma del popolo armeno che si presenta tutt’oggi come una questione irrisolta: quello del Genocidio del 1915. Dico trattarsi di questione irrisolta in quanto quel Genocidio, il primo del XX secolo, non ha ancora ottenuto il riconoscimento, che invece ad esso spetterebbe, dal Paese autore dell’eccidio: la Turchia. Ma non solo da questo. Altri Stati ancora si rifiutano di riconoscerlo, e non per dubbi sulla sua esistenza, bensì per un deprecabile fine politico: quello di non urtare la suscettibilità della Turchia, Paese membro della NATO e, pertanto, prossimo agli interessi strategici dell’Occidente nell’area. Ebbene, io ho inteso denunciare con questo romanzo la questione; e l’ho fatto attraverso una trama di fantasia, ma inserita in un contesto storico, politico e geografico intessuto di riferimenti veri e reali. Il nome Akhtamar deriva da una antica leggenda armena in cui si narra dell’amore di un pastorello per la figlia del Sacerdote che abitava sull’isola del lago di Van, nella Turchia orientale, e che si chiamava per l’appunto Tamar. Una storia triste, devo aggiungere, in quanto il pastorello miseramente annega la notte in cui la torcia, che la ragazza metteva in vista per far orientare il suo amato nella traversata del lago, a causa del vento si spegne.
E qual è il filo conduttore della vicenda narrata?
Il filo conduttore del romanzo è l’idea di un Generale armeno di vendicare il genocidio ordendo un colpo di mano per riconquistare le terre dell’Anatolia orientale un tempo possedute dagli armeni. Un’azione inimmaginabile nella realtà odierna, ma che potrebbe realizzarsi qualora le circostanze e le condizioni geopolitiche divenissero tali da indebolire militarmente la posizione della Turchia. Una plausibile finzione, descriverei io quest’opera, ma la si potrebbe anche definire altrettanto bene come un “azzardo romanzesco” per la forza che contiene come denuncia di un misfatto che non ha ancora ottenuto la giustizia storica che merita.
Quale insegnamento intende veicolare con quest’opera?
Il messaggio che mi propongo di trasmettere con questo romanzo è chiaro al lettore: la giustizia è relativa. Si riconoscono le colpe degli avversari, ma non le proprie, né quelle dei Paesi amici. Purtroppo, tanti sono i casi oggi in cui veri e propri crimini contro l’Umanità valgono come tali a seconda dei casi e dei soggetti per realizzare una deprecabile “giustizia à la carte” e non secondo principi universalistici. È l’ipocrisia, questa, dei tempi che viviamo e l’insolenza degli uomini che ci governano. Spero comunque che qualcosa cambi in futuro. E spero anche che la mia opera possa offrire un contributo costruttivo verso la realizzazione di una sensibilità etica a garanzia di una vera giustizia.
Perché ancora la maggior parte dei Paesi, tra cui anche il nostro, hanno paura di pronunciare la parola “genocidio” armeno?
Ho poc’anzi spiegato le ragioni che sono alla base del mancato riconoscimento del Genocidio armeno. Ebbene, molti esponenti politici di Governi amici della Turchia si rifiutano perfino di pronunciare ancor oggi la parola “genocidio”, e ciò in quanto il farlo implicherebbe una implicita ammissione del crimine come tale. E ciò contrasterebbe con la posizione sostenuta dai turchi secondo i quali gli eccidi commessi nel 1915, e che hanno visto la morte di ben oltre 1.800.000 civili armeni, non sarebbero stati programmati come sterminio di un popolo, bensì sarebbero la conseguenza di turbolenti eventi politici interni all’Impero Ottomano al tempo incontrollabili. Una tesi ovviamente che non regge né sul piano politico, né su quello storico-documentale. Troppe sono le prove, infatti, che portano a concludere come si sia trattato di una eliminazione fisica di un popolo perseguita volontariamente dal Governo ottomano alla cui azione non erano estranei elementi curdi e cripto-ebraici appositamente convinti dalle autorità per l’esecuzione dell’eccidio.
Naturalmente tra Armeni e Turchi, ci sono anche i Curdi, quali relazioni e/o conflitti li legano? Non meno importante della “questione Armena” appare infatti la “questione Curda”, in che cosa consiste?
I curdi sono un popolo che costituisce oggi una rilevante componente della Turchia. Al tempo del dominio ottomano le presenze curde come quelle armene, greche e di altre nazionalità erano tutte sottomesse alla Sublime Porta. Ad eccezione del periodo del genocidio armeno, generalmente i rapporti tra curdi e armeni sono stati di buona convivenza, anche se nel caso dei curdi non si è mai potuto realizzare un loro Stato unitario. Trattasi in realtà di un popolo al tempo sottomesso, come gli armeni, all’Impero Ottomano che, con la sua scomparsa, è stato poi diviso e frammentato in tante comunità nei vari Paesi mediorientali. Oggi vivono in maggioranza in Turchia, reclamano una loro terra e autonomia, ma, come in passato, i loro diritti non vengono ancora riconosciuti.
C’è una seconda opera che tratta dell’Armenia ARTSAKH – Confessioni sulla linea di contatto, dove, sempre attraverso il romanzo, si vuole denunciare un’altra questione irrisolta, quella del conflitto tra la maggioranza etnica armena del Nagorno Karabakh, sostenuta dalla Repubblica Armena, e la Repubblica dell’Azerbaigian, di cui parla approfonditamente in una intervista rilasciata a Francesco Toscano, insomma che cosa c’è ancora di irrisolto nella vicenda? E perché?
Vero, ho scritto un altro romanzo sugli armeni “Artsakh. Confessioni sulla linea di contatto”. Ma questa volta ho voluto concentrare la narrazione su un aspetto sì particolare, ma che si è rivelato determinante nel plasmare la Storia dell’Armenia moderna, anzi proprio quella dei nostri giorni, direi. In questo romanzo, infatti, tratto la questione dell’indipendenza degli armeni del Nagorno Karabagh (Artsakh in lingua armena), una regione di insediamento storico di questo popolo che varie vicissitudini politiche al tempo di Stalin lo hanno visto indebitamente trasferito – sebbene in regime di autonomia – nel perimetro della sovranità dell’Azerbaijan. Tuttavia, con il dissolvimento dell’URSS una apposita legge del Soviet Supremo prevedeva la possibilità non solo per le Repubbliche sovietiche, ma anche per le loro entità autonome interne di dichiarare la propria indipendenza. Questo era il caso del Nagorno Karabagh. Ma la sua scelta in virtù del principio dell’autodeterminazione non è stata riconosciuta da Baku che ha avviato un processo di repressione causa di una prima guerra finita in favore dell’Armenia nel 1994, ma che oggi, dopo le guerre del 2020 e del 2023, per attacco dell’Azerbaijan, ha portato alla impietosa sconfitta di Yerevan. La questione è del resto della massima importanza per l’Armenia in quanto trattasi di una vera causa storica nazionale che purtroppo resta, alla luce degli ultimi eventi bellici, ancora irrisolta. Anche in questo romanzo la trama è naturalmente di fantasia, ma prende spunto da crimini commessi dagli azeri a danno di civili armeni inermi che per la solita relatività della giustizia sono rimasti tuttora impuniti. Una circostanza che ho voluto porre con forte enfasi e convinzione al centro della trama.
Passiamo ad un altro tema scottante e attualissimo come quello della militarizzazione dello spazio trattato nel suo romanzo SOMNIUM – Urla dall’Universo, quanto c’è di vero e quanto di fantasioso nel progetto che rischia di portare il mondo sull’orlo di un conflitto mondiale?
Nel romanzo “Somnium. Urla dall’Universo” il tema è la militarizzazione dello Spazio. Non è una fantasia ipotizzare in un futuro neanche troppo lontano che qualche superpotenza pensi di utilizzare il cosmo per fini strategici e geopolitici. Negli ultimi anni il progresso della scienza ha dato l’abbrivio al concepimento di armi sempre più sofisticate, prevedendo così tecnologie estremamente avanzate e più letali; il che induce a ritenere che armi spaziali possano prima o poi affermarsi, soprattutto se le attuali tensioni internazionali dovessero continuare ad acutizzarsi nel prossimo futuro.
Perché l’Universo urla e si ribella a questo raccapricciante sistema di controllo di tutto?
In realtà l’urlo che si sente leggendo il mio romanzo vuole essere la disperazione di chi, viaggiando in una navicella nel buio dello spazio più profondo percepisce la propria insignificanza nell’imminenza della fine che lo attende. È la resistenza della vita alla volontà della morte; eppure anche in quelle condizioni così estreme nulla è perduto completamente: subentra alla fine il senso della rassegnazione con la speranza che qualcun altro in futuro possa ridare vita e identità.
C’è una serie televisiva statunitense del 2024 che sta spopolando in Italia – anche grazie a una particolare pubblicità comparsa sui tabelloni ferroviari di Roma e Milano – Il problema dei 3 corpi (3 Body Problem) creata da David Benioff, D. B. Weiss e Alexander Woo, nella quale si mostra come si possa militarizzare lo spazio attraverso il controllo tecnologico pervasivo. Tale serie è il libero adattamento dell’omonimo romanzo del cinese Liu Cixin: anche in questa visione si tratta davvero solo di fantascienza o fantapolitica?
Lei, a proposito di Spazio, mi parla di una serie televisiva che purtroppo non seguo. Ma posso ugualmente risponderLe dicendo che nulla è impossibile. Concepire nuove tipologie di armamenti è oggi alla portata delle tecnologie disponibili. Basti pensare al bombardamento cinetico, ovvero quello realizzabile con il recupero di oggetti dallo spazio per scaraventarli su prestabiliti luoghi del Pianeta, o alla guerra meteorologica, elettromagnetica, o perfino a quella neurologica con effetti di zombizzazione sugli esseri umani. Quindi non escludo che ciò che oggi sembra pura fantasia possa domani diventare in effetti realtà. Ricordiamoci al riguardo l’opera di Giulio Verne “Dalla Terra alla Luna”. Una storia fantastica, quella, ma che è divenuta realtà ai nostri tempi.
Il protagonista Timothy Sanders è un giovane astrofisico e aspirante astronauta della NASA: mi pare che da giovane lei aspirasse a fare l’astrofisico, si è immedesimato nel personaggio con un tuffo nel passato?
Non lo nascondo. Ebbene sì. Lo confesso. Mi sono visto nel ruolo di Timothy Sanders quando scrivevo il romanzo. Del resto l’astrofisica è sempre stata la mia grande passione. E anche se all’Università ho abbandonato quel corso di studi (per motivi legati alla scarsa funzionalità delle mie conoscenze matematiche derivanti dagli studi classici), il desiderio di approfondire le scienze astrofisiche ancora vive in me e mi spinge tuttora ad occuparmi di Spazio cosmico. Tornando al romanzo, posso quindi affermare che amo quel personaggio, Sanders, e aggiungo pure che lo invidio. Lo invidio per la sua innata inclinazione allo studio dei grandi misteri dello Spazio, per la sua predisposizione matematica e, infine, per il successo raggiunto nel realizzare il suo grande e ambito sogno.
Oltre che trattare alcuni dei problemi irrisolti del pianeta, lei si è spinto davvero fino al Polo Nord con Arktikos. La scacchiera di ghiaccio: nell’Artide, dove esiste il più piccolo oceano del mondo, Il mar glaciale Artico, e i suoi mari limitrofi (Chukchi, Siberia orientale, Laptev, Kara, Barents, White, Groenlandia, ecc.) dal clima ostile e dalla superficie perennemente ghiacciata. Perché il riscaldamento globale dell’artico potrebbe avere conseguenze sul resto del clima mondiale?
Sì, il riscaldamento globale è il tema cruciale di questo romanzo. Come vede, nelle mie opere si tratta sempre di situazioni estreme, di fatti fantasticati, ma che potrebbero però trovare una corrispondenza nella realtà. Oggi si parla tanto di clima e dell’aumento della temperatura media del Pianeta. Ebbene, al di là della narrativa che da più parti si pone come giustificazione alle tante transizioni che i Governi ci vogliono imporre, io dico che il riscaldamento della Terra è un fatto che certamente può risultare vero e reale. Nego per contro che il livello drammatico che si pretende sia da attribuirsi all’antropizzazione eccessiva del Pianeta. I dati scientifici a disposizione, infatti, non confermerebbero questa spiegazione. Vera e inconfutabile invece è la tesi che dal 1850 la Terra sta attraversando una fase di graduale aumento della temperatura essendo venuta a cessare al tempo l’ultima fase di una glaciazione. In ogni caso, se la temperatura andrà ad aumentare è chiaro che l’Artico sarà uno dei primi luoghi in cui si vedranno le conseguenze, e tra queste lo scioglimento graduale del “pack artico”. L’effetto immediato sarà l’apertura dei due noti passaggi di Nord-Est e di Nord-Ovest che consentiranno la navigabilità del Mar Glaciale Artico circumnavigando le masse continentali dell’Asia e del Nord America. Naturalmente lo scioglimento dei ghiacci ai due Poli, Nord e Sud, non mancherebbe di influire sulle condizioni ambientali di tutto il Pianeta; e ciò per via di effetti “feed back” che si innescherebbero a catena alterando le condizioni ecologiche originarie.
E perché le due superpotenze, Stati Uniti e Russia, si contendono queste acque ghiacciate?
La contesa tra le superpotenze per il dominio dell’Artico è un fatto reale. Non scordiamolo. Abbiamo già moltissimi indicatori che inducono a pensare come lo scioglimento dei ghiacci venga a catturare l’attenzione per il controllo della regione. Non solo vi sarebbero interessi strategici, e anche con finalità militari, ma è sul piano economico che l’Artico libero dai ghiacci acquisterebbe un significativo rilievo: in primo luogo per la navigazione che accorcerebbe a quella latitudine i tempi di viaggio dall’Atlantico al Pacifico, e poi ai fini dello sfruttamento delle immense ricchezze che la regione artica ancora nasconde.
E perché entra in gioco anche il Pontefice?
Nel romanzo entra in gioco la S. Sede per un semplice motivo: attesa la gravità della crisi che si determinerebbe con lo scioglimento dei ghiacci polari, l’intervento di un soggetto dalla massima autorevolezza, non solo spirituale ma anche politica, credo sia una genuina, quanto desiderata speranza di tutti gli uomini del Pianeta. Di fronte all’abisso che causerebbe una guerra atomica, a quale potere potrebbero rivolgersi gli uomini di buona volontà se non al Pontefice in virtù della universalità del suo messaggio?
Gli equilibri tra guerra e pace, anche in altre parti del pianeta, hanno sempre gli stessi interlocutori?
Direi proprio di sì. I rapporti tra guerra e pace sono oggi spalmati su tutto il globo planetario. Una crisi in un lontano angolo della Terra può divenire facilmente pretesto o causa di un conflitto tra superpotenze. Le dinamiche geopolitiche al nostro tempo sono talmente irretite e interdipendenti che è difficile trovare una crisi, per quanto modesta possa essere, che non abbia la capacità di elevare potenzialmente il livello di rischio per un conflitto di interessi. E poiché alla fine i protagonisti della moderna geopolitica sono oggi sempre le stesse superpotenze, va da sé che anche gli interlocutori siano sempre gli stessi, almeno a questo stadio del corso evolutivo della comunità internazionale. In futuro, probabilmente altri interlocutori potrebbero aggiungersi, ma nella misura in cui il mondo verrà a cambiare da una configurazione unipolare – a guida americana come è attualmente – ad un’altra multipolare in cui nuovi Stati, oggi in crescita, potranno verosimilmente giocare un ruolo più attivo e incisivo.
E veniamo al tema de L’anomalia della terra promessa dove già nel primo capitolo emerge che il nostro protagonista, Abraham Kenen, non solo è un funzionario della CIA, ma appartiene ad un reparto dell’Agenzia S.A.D. (Special Activities Division) «specificamente addestrato in operazioni paramilitari all’estero e specializzato, in particolare, a cambiare il corso degli eventi in altri Paesi influendo sulle loro situazioni politiche», addirittura «facendo uso della forza» magari con «interventi sovversivi condotti in massima segretezza e clandestinità». Il protagonista opera altresì, «segretamente anche per conto delle organizzazioni sioniste». La premessa così articolata è legata ai primordi della nascita dello Stato di Israele?
Non necessariamente ai primordi. Lo Stato di Israele è nato nel 1948, ma le guerre succedutesi nel corso degli anni hanno causato enormi tensioni tra Gerusalemme e i Paesi arabi limitrofi; il che ha implicato il ricorso alle attività di “intelligence” da parte della CIA al fine di gestire le situazioni in conformità degli interessi americani e delle lobby sioniste. Ma nel quadro mediorientale la questione più critica che non ha ancora trovato soluzione è proprio quella palestinese. Un popolo di insediamento storico in Palestina che rischia oggi di essere cacciato dal suo territorio per via di una improvvida politica seguita dal Regno Unito fin dal tempo del colonialismo. Ecco, il romanzo, seguendo ormai un mio tipico cliché, intende denunciare questa anomalia, ovvero la promessa fatta dagli inglesi con la Dichiarazione Balfour del 1917 di creare un “focolare domestico” per gli ebrei. Un luogo identificato poi con la Palestina, ovvero con una terra che loro ancora non apparteneva per essere parte dell’Impero Ottomano.
Quando sentiamo parlare di conflitto in Ucraina e sulla Striscia di Gaza sembra che dobbiamo partire solo da un fatto accaduto oggi, o negli ultimi mesi, ma le discordie spesso sono antiche. Cosa direbbe ai nostri media che affrontano il problema senza addentrarsi nelle vicende del passato?
Un vero giornalismo professionale non dovrebbe mai trattare le questioni analizzandole come una fotografia del momento. Errore gravissimo è questo che, fuorviando la pubblica opinione da fatti e circostanze reali, induce alla formazione di giudizi alterati, se non addirittura falsificati. È quello che sta succedendo di questi tempi proprio nei casi che ha prima citato: l’Ucraina e la Striscia di Gaza. Con riferimento a tali questioni assistiamo oggi ad un’operazione imponente di mistificazione delle verità storiche. A mia memoria, in tutto l’arco della mia carriera non ho mai visto prima d’ora una linea di interpretazione dei fatti da parte dei media così massivamente omologata e allineata. Ovviamente dietro deve esserci una mente che sta guidando il mondo verso traguardi che a noi comuni cittadini per lo più sfuggono. Viviamo in un momento storico molto critico temo. L’avvento della ricchezza globalizzata – formatasi attraverso le attività speculative delle multinazionali e dei grandi fondi di investimento sotto la spinta dell’iperliberismo senza regole – ha fatto concentrare nelle mani di pochissimi individui un potere immenso, al punto che sono loro che oggi indirizzano i Governi c.d. democratici per imporci le loro politiche e le loro “transizioni”. Ecco come si spiega l’assenza di obiettività oggi da parte dei media su questioni di fondamentale importanza. E ogni deviazione da questa linea viene ovviamente additata come nociva per la società, e per questo oscurata, marginalizzata, se non addirittura censurata.
Quali sono le “anomalie” suggerite dal titolo dell’opera? In particolare mi piacerebbe ci spiegasse la prima anomalia, quella biblica, sulla quale si innestano le anomalie successive.
Leggendo il romanzo ben si comprende come essenzialmente due siano le anomalie della Terra Promessa. La prima anomalia è di natura politica e, come prima precisato, risalirebbe alla Dichiarazione Balfour del 1917. Una promessa fatta dagli inglesi di destinare una terra agli ebrei quando ancora questa terra non era nel loro possesso. Io definirei questa promessa una sorta di vendita allo scoperto che il Regno Unito avrebbe al tempo fatto agli ebrei. Ed è la prima anomalia. La seconda ha una matrice religiosa che risalirebbe alla Bibbia e più esattamente alla Genesi, quando Dio promette ad Abramo “la più bella di tutte le terre, la terra dove stilla il latte e il miele”, un luogo, questo, che coinciderebbe con la terra di Canaan, la Palestina di oggi. Ma Lei si domanderà ora dove sarà l’anomalia di questa promessa… Ebbene, Dio promette ad Abramo che dalla sua stirpe nasceranno due grandi nazioni, una da Isacco, l’ebraica, l’altra da Ismaele, l’araba. Orbene i due popoli, sebbene per esegesi della Bibbia, avrebbero dovuto convivere, presumibilmente, in pace, ecco che oggi si trovano invece confrontati da un profondo contrasto. E non è forse questa una anomalia riconducibile proprio alla promessa fatta da Dio? Lascio ad ognuno dei lettori farsi un proprio giudizio sul caso.
Un altro aspetto dei suoi libri è la cura posta nel dettaglio non solo degli eventi storici ma anche delle ambientazioni geografiche, tanto che questo “cannone laser”, l’arma segreta altamente tecnologica e silenziosissima fulcro del racconto, viene installata proprio sul Monte Ararat (o se vogliamo chiamarlo col nome turco ‘Buyuk Agri Dagi’) perché proprio lì?
Sì, ricorro molto alla geografia nei miei romanzi. È vero. Ma credo sia doveroso per via dello spirito di aderenza alla realtà che anima tutte le mie opere. Mi spiego. Poiché la narrazione, sebbene trasfigurata da una trama di fantasia, rispecchia situazioni, fatti, avvenimenti concreti e reali, anche i riferimenti geografici devono avere un preciso ruolo nello sviluppo della trama. E per la descrizione dei luoghi mi avvalgo molto spesso proprio della mia personale esperienza, come in Africa per esempio, o in Turchia dove mi sono spinto fino ai confini con l’Iraq e l’Iran in alta montagna e in condizioni assai critiche. Il Monte Ararat fa per l’appunto parte di questo mio bagaglio di esperienze. È una montagna splendida, altissima per via dei suoi 5100 metri, ma dolcissima nei profili che la descrivono. Perché l’ho scelta? Semplice. Come luogo ideale per piazzare un cannone il cui raggio d’azione avrebbe dovuto essere assai ampio da comprendere i confini dell’Iran, dell’Iraq e della stessa Turchia.
Quali storie si raccontano sull’Arca? E che relazione simbolica ha voluto stabilire tra Arca e Cannone?
Sulla possibilità che il Monte Ararat nasconda da qualche parte la famosa Arca di Noè vi sono tantissime storie e racconti, perfino anche ai limiti della leggenda.
Varie sarebbero poi le fonti, ma generalmente queste sono o armene, o, se documentate, provenienti da rapporti militari dell’ultima guerra. Si racconta per esempio che qualcuno abbia effettivamente visto un reperto dell’Arca, ma che questo periodicamente scompaia a causa dei ghiacci che in fasi alterne si formano in alcuni profondi canaloni ad alta quota. Si dice anche che qualcuno abbia in passato portato lui stesso un frammento di legno antico sul monte facendo credere che l’avesse trovato. E poi, vi sono i rapporti dell’aviazione britannica e americana che farebbero stato di un uso militare dell’Ararat da parte dell’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda. Si ipotizzerebbe addirittura la costruzione di una base militare poi fatta scomparire. Certo è che la questione dell’Arca è ancora un mistero. Un enigma che affascina le menti e stimola i cuori a credere di porter effettivamente trovare la risposta al quesito della sua esistenza. Ma a ben guardare, quella sporgenza che talvolta appare e che talvolta scompare sotto i ghiacci dell’Ararat, non è forse anch’essa un’altra anomalia? Una anomalia di cui si serve il protagonista del romanzo, Abraham Kenen, per aprire una crisi di proporzioni bibliche al fine di salvare ancora una volta il popolo prediletto da Dio?
Possiamo dire che lei affronta anche il tema del viaggio e il problema dell’acqua?
Certamente. La scalata del Monte Ararat, e per giunta, dal versante più difficile perché più nascosto ad occhi indiscreti, non è una passeggiata. Le difficoltà ci sono e sono reali, e tra queste proprio il problema dell’acqua attesa la natura vulcanica delle rocce che formano il monte e che incidono sulla sua composizione chimica.
La dedica iniziale del libro: «Ai bambini colpiti dalla violenza della guerra, ai bambini sofferenti per la perdita dei genitori, ai bambini cui sono negate l’innocenza del sorriso e la speranza di un futuro dedico questa opera, convinto che il pianto sia la forza per combattere il male e il loro sguardo la luce per illuminare il mondo perché si liberi dall’odio, dall’egoismo e dal rancore», è rivolta anche ai 13.450 bambini morti nella Striscia di Gaza a partire dal 7 ottobre?
Sì. Certamente nel concepire la dedica mi sono indirizzato a tutti i bambini che oggi purtroppo si trovano a vivere in condizioni di estremo disagio per via delle guerre, dell’odio etnico e dello sfruttamento predatorio delle loro terre, ma, considerato il fine del romanzo di denunciare il dramma irrisolto del popolo palestinese, avevo in mente proprio loro, i bambini palestinesi, vittime innocenti di un irrefrenabile egoismo degli uomini.
Possiamo parlare di “genocidio” del popolo palestinese, oppure anche in questo caso dobbiamo attenerci a quello che dicono i nostri Governi?
Siamo sinceri! Se, come è vero, l’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso ha fatto molte vittime tra gli israeliani, la reazione di Gerusalemme, per quanto legittima quale forma di rappresaglia finalizzata all’auto-tutela è del tutto sproporzionata per entità di danni causati e per numero delle vittime. La rappresaglia, quella ammessa dal Diritto Internazionale, deve risultare obbligatoriamente proporzionata e commisurata al danno ricevuto. Orbene, mi sembra che l’azione condotta da Gerusalemme abbia largamente superato questi limiti e che sia sconfinata in quella forma di massacro che più propriamente si definisce “genocidio”. Non avrei dubbi al riguardo, perché l’uccisione, fino ad oggi, di ben oltre 34000 civili palestinesi non è il risultato di una semplice azione bellica i cui esiti erano difficilmente prevedibili! Al contrario. Il massacro è stato conseguenza di una operazione bellica programmata ed eseguita peraltro in un ristrettissimo lembo di terra per giunta ad alta intensità abitativa. Era tutto prevedibile. Per questo dico che per me è un genocidio. Ma vedremo come sentenzierà in merito la Corte Internazionale di Giustizia alla quale il Governo del Sudafrica si è rivolto citando in giudizio proprio il Governo di Israele.
Abraham Kenen (Ken Abraham), David Bowie, Orhan Pamuk, John Warwick, Paul Douglas, Daniel Casey, ecc., lo stesso nome Abraham, non sono casuali, tra uno dei più grandi cantautori del Novecento e un premio Nobel turco per la letteratura, appare intrigante vederli agire in un altro ruolo, forse simbolico?
I nomi sono indubbiamente interessanti per l’omonimia che potrebbero sottendere con personaggi noti. Ma la mia scelta è puramente casuale, basandomi io, nel trovare i nomi dei personaggi, principalmente sulla eufonia della loro pronuncia, non disgiunta in molti casi dalla relazione che lega il personaggio al ruolo assegnatogli. E questo è il caso di Abraham Kenen!
Vorrei farle altre tremila domande, ma comprendo che non posso sperare che Lei ci possa rivelare tutte le conoscenze acquisite in 40 anni di attività diplomatica, l’unica cosa certa è che ne sappiamo sempre troppo poco e in molti casi quasi nulla. Che cosa ci racconterà nel suo prossimo progetto? Qual è questo progetto?
Se Lei intende riferirsi alla letteratura, certamente il mio impegno è nel continuare a scrivere romanzi per denunciare le tante criticità che ancora ci circondano. In questa prospettiva, penserei forse per il prossimo romanzo ad una trama legata alla traumatica esperienza pandemica vissuta dalle società occidentali con il Covid-19. Ma dovrà essere una trama comunque avvincente, come mio stile, e al contempo un’occasione per denunciare i rischi che certi regimi sanitari implicano per la integrità della persona umana, sul piano corporale certamente, ma anche su quello della sua identità naturale.
Al di là della letteratura avrei, però, anche un obiettivo molto più impegnativo: la politica. Ho deciso, infatti, di mettere la mia esperienza e le mie conoscenze al servizio di una causa ineludibile: cercare di rimettere in asse un corso politico dell’Europa degradatosi nei valori da perseguire. Il mondo in cui viviamo, infatti, è decisamente allo sbando oggi. Non abbiamo più riferimenti valoriali capaci di guidarci, ma anzi abbiamo una classe politica governante che li sta calpestando e distruggendo in nome delle “transizioni”, dall’ecologica alla digitale, dall’ambientale alla energetica. E di queste transizioni, ammettiamolo, non si comprendono i veri traguardi, né i veri obiettivi. E il tutto oltre ogni ragionevole spiegazione. La politica ha perso il suo vero protagonista: l’uomo. Dunque, occorre rimettere l’uomo al centro dell’azione politica e non farne un mero oggetto come sta invece oggi accadendo.
Ma per questo c’è bisogno di una forza politica dotata di una chiara progettualità, fatta da uomini onesti e animata dall’idea di recuperare la centralità dell’uomo e la sua dignità quale fine ultimo e superiore di ogni azione di governo. Io ho trovato questo movimento politico in ‘Democrazia Sovrana Popolare’.