Il racconto aspro e asciutto del disastro ambientale consumato ai danni della Basilicata, in nome della cieca cupidigia produttiva di un’industria di Stato
Sfortunato quel Paese che ha bisogno di correre a teatro per condividere con il prossimo l’indignazione per gli abusi, le storture, i tradimenti del vivere civile. Tutto questo dovrebbe essere compito di politica e informazione: due mondi che hanno smesso da tempo di compiere il proprio dovere, per contenerci tutti in un’asfittica, abulica e soprattutto svociata ridotta, dove al massimo possiamo intrattenerci per giorni sul pandoro di quella o di trastullarci sulle cene eleganti di quell’altro.
Ma fortunati noi che, corsi al Teatro di Villa Lazzaroni per assistere a una performance di quello stimato attore che è Ulderico Pesce, ci ritroviamo toccati nel profondo da quella narrazione che non ci aspettavamo così potente, abituati come siamo –quando va bene- allo sfoggio narcisistico di tecnica mimetica, o a una drammaturgia piatta, che non fa male a nessuno.
Petrolio è un racconto che Ulderico Pesce fa da diversi anni alle platee italiane parlando della sua Basilicata, una terra aspra, ma fertile, bagnata da due mari, con una insospettabile grinta estensiva, tra calanchi, montagne e misurati affacci sul mare, col vantaggio di essere poco abitata. Un racconto che parte leggero, come solo i veri lamenti tragici sanno fare, giocando con il pubblico sulle caratteristiche geografiche di questa piccola regione, fino all’epifania di una fiamma accesa, montata su una ciminiera alta 15 metri che un giorno dei primi anni Novanta appare nella Val d’Agri, la più fertile tra le fertili terre di quella regione.
Ma non è esattamente un focolare docile, quella fiamma, come ingenuamente supponeva il povero imbianchino avventizio Giovanni, mostrandola alla figlia Maria e alla moglie Maria (supplente nelle scuole, anche lei avventizia, dunque come succede non di rado da quelle parti, per avere sempre personale potenziale da sfruttare, ammalare e abbandonare).
Quella è la fiamma dell’ENI, che brucia acido solfidrico e con il suo inconfondibile puzzo di uova marce che le fa da scorta olfattiva, brucia inesorabilmente la fragranza di quei posti, dove si potevano prima abbracciare gli alberi e raccogliere copiosamente i frutti della terra. Ma a bruciare inesorabile, scopriremo, non è solo l’aria locale, ma anche la salute dei residenti. Insieme alle speranze di lavoro di una intera comunità, illusa dalle prospettive di un’industrializzazione stabile e oculata, sedicente dispensatrice di benessere e non mancette consolatorie, che non tarda a rivelarsi responsabile di uno dei più sfacciati sfregi ambientali (replicato del resto anche altrove con la medesima incuria in ogni dove compaiano raffinerie di petrolio).
Un’azienda colpevolmente partecipata dallo Stato, l’ENI è corsa fin dai primi anni Novanta del XX secolo a trivellare fino a settemila metri in profondità quella terra immacolata, incurante di danneggiare per sempre le falde acquifere con i suoi veleni di scorta per trivellare meglio e più velocemente e ricavare centinaia di barili di greggio al giorno, secondo un disciplinare voluto dalle dirigenze che hanno del resto significativamente commisurato lo spessore dei propri corrispettivi stipendiali alla consistenza produttiva.
E a proposito di corrispettivi cosa resta ai residenti? Poco più del distintivo di qualche abbellimento di facciata, qualche evento canoro col richiamo di Al Bano o Alvaro Soler e il ricatto del lavoro. Insieme a una fiamma che illumina a giorno la città di Viggiano, proprio dove vive Giovanni, il protagonista di questa storia raccontata in soggettiva (e che soggettiva, scopriremo!) insieme alla moglie Maria e alla figlia Maria (lo abbiamo già detto, ma ci piaceva sottolineare che sì, pare che la devozione da quelle parti obblighi sostanzialmente a ricordarsi della locale divinità, la Vergine Nera, quando si tratta di battezzare le nasciture). Viene da sospettare che la devozione -che più granitica non si può- è una categoria sperimentata per quella frangia poco abitata del nostro Sud, dove chiunque può passare e saccheggiare il territorio dalle sue risorse (ce n’è anche per il Nord dell’equivoco risorgimentale nel procedere crescente e indignato della narrazione).
La partitura drammaturgica che fa da sfondo/pretesto per questa che è una autentica denuncia civile, ci racconta che Giovanni lavora –rigorosamente con contratti trimestrali, per lasciarlo sospeso al ricatto dei rinnovi – di guardia ai silos di raccolta del greggio estratto. Si è accorto da tempo di fuoriuscite copiose dai margini bassi di quei contenitori, ciò che provoca uno sversamento continuo di combustibile nel terreno.
Uomo dalla vocazione contadina nativa, non tarda ad allarmarsi per le inevitabili ricadute nefaste delle infiltrazioni, a cominciare dal grande Invaso del Pertusillo che fornisce acqua a tre regioni. Che fare? Informare i suoi superiori della cosa? O tacere? Il dilemma lo scuote nelle fondamenta di uomo retto: e se la denuncia significasse una discontinuità, per lui e per gli altri, di quel lavoro tanto agognato? Gli impianti magari verrebbero chiusi. E’ qui che la pièce conosce, attraverso l’intensa comunicativa dell’interprete, vertici narrativi che stregano la platea, bloccandola in quel silenzio assorto che si produce quando una verità viene rivelata senza le mediazioni della retorica o del politicamente corretto.
E’ così che la piccola storia di Giovanni e i suoi grandi tormenti incrociano i misteri che hanno attraversato negli anni la vicenda del petrolio nel nostro Paese. Dall’incidente mai del tutto chiarito che costò la vita a Enrico Mattei, al capitolo mancante del romanzo postumo di Pasolini, intitolato proprio “Lampi sull’Eni”, ai misteriosi suicidi registrati solo pochi anni fa di funzionari di quell’impresa, guarda caso proprio di coloro che -come l’Ing. Gianluca Griffa o il Generale della sezione forestale dei Carabinieri Guido Conti– si erano battuti per uno sfruttamento del sottosuolo lucano più attento alle ragioni della conservazione e che si erano alla fine dovuti misurare con i medesimi dilemmi e ostilità del povero Giovanni.
Ma poi, a chi dirlo? A tutti quelli che sanno già tutto e che hanno fatto della predazione dei territori (a Viggiano, come a Melfi, o ad Augusta o sul Delta del Niger sia che gli impianti siano intestati all’Eni, alla Total o alla Shell) il loro vangelo? O a corpi intermedi che dall’implementazione del lavoro purchessia (come accade nella vicina Taranto) traggono sostegno e potere, o a forze dell’ordine distratte o poco accorte?
Giovanni troverà un’interlocuzione giusta per pacificare il suo tormento, che ormai non cerca più voce: basterà la sua, perfettamente irrobustita dal rodeo dei suoi dilemmi. A lui serve una sponda di ascolto, perché una denuncia a suo modo sente che ci dovrà pur essere.
Non riveleremo fino in fondo quale sarà la sua scelta, auspicando che questo lavoro venga ripreso al più presto e che un altro pubblico possa partecipare, come quello di domenica scorsa al Teatro di Villa Lazzaroni, a questa splendida sessione di Teatro civile. Ne abbiamo bisogno tutti per la nostra tenuta morale, prima di assieparci tutti davanti al televisore, sì incantati proprio come davanti a una fiamma che brucia a 15 metri da terra, per assistere alle imminenti, interminabili serate di Sanremo.
A proposito: sapete chi figura tra gli sponsor anche di questa edizione?
Esatto!
Petrolio di e con Ulderico Pesce – Teatro Villa Lazzaroni 28 gennaio 2024