Il regista dirige il film, candidato a quattro Globe e sette Oscar, con la bacchetta di Leonard Bernstein suonando la sua musica
Maestro è stato presentato all’ultimo Festival di Venezia riscuotendo molti apprezzamenti, ma senza racimolare alcun premio. Ora, il film di Bradley Cooper dedicato a Leonard Bernstein, si appresta ad affrontare un importante doppio appuntamento con le grandi kermesse cinematografiche, i Golden Globe (4 candidature) e poi gli Oscar (7 candidature, che non son poche). L’augurio è che vinca, vinca, vinca, in onore del più straordinario Maestro della musica contemporanea: l’unico, insieme con Šostakovič, ad aver portato le forme musicali considerate leggere a livello della musica colta. Questa speranza di vittoria, tuttavia, molto probabilmente rimarrà inascoltata. Sappiamo benissimo che quel che oggi spinge una pellicola alla conquista dei più ambiti riconoscimenti internazionali dipende da altri fattori, più economici che artistici, e non solo.
Il film è considerato dalla critica aggiornata un biopic, un genere che fino a qualche anno fa non esisteva, anzi simile nomenclatura la si sarebbe trovata più facilmente sulla confezione di un medicinale; in effetti si tratta di un lungometraggio biografico sulla vita del grande compositore e direttore d’orchestra: per tutti Lenny. In alcuni passaggi iniziali è anche un grande omaggio al teatro musicale. L’energia che sprigiona il protagonista e soprattutto la musica rendono il film piacevole, affascinante, e arricchito di una malinconica confusione di sentimenti.
Tuttavia – bisogna essere obbiettivi – se musicalmente può essere considerato Maestoso con brio (per gli amanti di genere), cinematograficamente risente di qualche Adagio di troppo, specie nella seconda parte. Meravigliosa è certamente la fotografia di Matthew Libatique che, dopo un breve prologo a colori sull’ultimo Bernstein che si confessa davanti alle telecamere, è invitato dal regista a seguire la narrazione dagli esordi del Maestro, foderando il racconto con un bianco e nero patinato di nostalgica memoria. Nel finale, quando ritorna il colore, si avverte bruscamente una differenza d’atmosfera del mondo interiore del musicista; e ancor meno con quella creata dalla sua musica; ad eccezione della ripresa nella Cattedrale di Ely dove nel 1974 Bernstein diresse la Sinf. n. 2 di Malher con la London Symphony Orchestra. Sequenza entusiasmante.
Si potrebbero elencare le moltissime doti sfoderate da Cooper, il quale per entrare meglio in parte ha imparato a suonare il pianoforte, s’è camuffato il naso con un manufatto posticcio (un accorgimento assai criticato – chissà perché – da una scrupolosa frangia antisemita), ha studiato meticolosamente al computer tutte le inquadrature, soprattutto quelle che non avrebbe potuto seguire in diretta perché davanti alla telecamera. Tuttavia l’abilità primaria di Cooper è sicuramente l’approfondita conoscenza del repertorio di Bernstein. L’intero racconto della sua vita vibra quando trova negli spartiti musicali i respiri, i sorrisi e gli entusiasmi che conducono la recitazione del protagonista in una sfera sublimale, in cui il suo entusiasmo per la vita e l’amore per il prossimo è il sentimento maggiormente coinvolgente; una caratteristica che volontariamente s’adombra quando Carey Mulligan (bravissima nel delicato ruolo della moglie Felicia) comincia ad opporsi con tigna femminile al carattere esplosivo del marito.
Cooper dipinge un Bernstein musicista irrequieto e gran fumatore; e proprio il fumo della sigaretta diventa il principale collaboratore artistico della fotografia in b/n di Libatique; con il colore l’effetto poi svanisce. Ma Cooper si sofferma, anche e soprattutto, sull’irrequietezza sessuale di Bernstein, che è l’esuberanza dell’artista, la necessità vitale della creazione, la sopravvivenza dell’animo inquieto. Bernstein fa parte di quella generazione (nato nel 1918) in cui l’omosessualità veniva vissuta senza clamori, di nascosto, ma lui – grazie alla sua arte e alla sua gloria – ha sempre frequentato un ambiente dove la sua rinomata bisessualità era comunque silenziosamente accettata. Ben lontano dalla New York della Christopher Street, e con una moglie sempre al suo fianco a proteggerlo da qualunque infamia (all’epoca era così!), anche Bernstein fu «vittima dell’invidia», come egli stesso dice, e dei pettegolezzi. Ma, di sensibilità e di intelligenza superiore, non si lasciò mai coinvolgere dallo sconforto.
Tuttavia, proprio per questo tema, lo sconforto potrebbe cogliere oggi lo spettatore colto per il motivo opposto. Della bisessualità di Bernstein, infatti, se n’era sempre parlato, da anni era risaputa, esattamente come quella di Luchino Visconti e di tanti altri intellettuali e artisti. Egli stesso, pur senza esibizioni, non l’ha mai nascosto. Allora mi domando: perché, in un’epoca come questa, in cui l’argomento è ormai arrivato ufficialmente perfino sui banchi di scuola, si deve calcare la mano laddove lo stesso protagonista ha invece mantenuto un suo stile tanto dignitoso quanto disponibile? Perché far pesare sulla recettività del pubblico televisivo (il film è già visibile su Netflix) l’immoralità del pettegolezzo che, si sa, procura sempre un becero e inutile chiacchiericcio, a discapito dell’eleganza di Leonard Bernstein? Era proprio necessario?
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Maestro, un film di Bradley Cooper. Soggetto e sceneggiatura di Bradley Cooper e Josh Singer. Con Bradley Cooper (Leonard Bernstein), Carey Mulligan (Felicia Montealegre), Matt Bomer (David Oppenheim), Maya Hawke (Jamie Bernstein), Sarah Silverman (Shirley Bernstein), Michael Urie (Jerome Robbins), Gideon Glick (Tommy Cothran), Sam Nivola (Alexander Bernstein), Miriam Shor (Cynthia O’Neal), Alexa Swinton (Nina Bernstein), Brian Klugman (Aaron Copland). Fotografia, Matthew Libatique. Musiche, Leonard Bernstein. Costumi, Mark Bridges. Regia di Bradley Cooper
Foto di copertina: Bradley Cooper nel ruolo di Leonard Bernstein in «Maestro» (Per le tre immagini © Jason McDonald/Netflix)