La poesia alla prova di forza con la realtà
Che tempi sono mai questi nei quali il pensiero complesso è bandito da ogni dove e l’istinto riflessivo viene sbertucciato come antiquato o pedante? Di chi la responsabilità di aver abbassato la curva dell’attenzione per le platee multimediali contemporanee che non sanno più che farsene di qualcosa che accompagni all’esercizio del pensiero? Da quando siamo allevati a somministrazioni di reality e Tali e quali show? E ancora da quando abbiamo inesorabilmente smarrito la capacità di misurarci su un agone dialettico, senza contrapporci in tifoserie sfegatate?
Sono le domande che ci poniamo a mitraglia uscendo dallo spettacolo in scena in questi giorni al Teatro Marconi. Si tratta dell’allestimento de I giganti della montagna, l’ultima fatica di Luigi Pirandello, rimasta incompleta per la morte dello scrittore agrigentino. Proprio la sua incompiutezza ha dato il via negli anni a una sorta di corsa esegetica a restituire l’essenza autentica di quell’ispirazione, una corsa alla quale ci iscriviamo di ufficio anche noi spettatori all’uscita, con le nostre domande affamate di risposta. Chi sono i Giganti, colpevoli di rozzezza e brutalità, schiavi della realtà e resistenti al tocco della bellezza?
Senza offesa, per chi ha azzardato la chiave metaforica della polemica contro l’autoritarismo stucchevole del Fascismo, basterà forse ricordare che Pirandello, in disparte dalla sua immediata e sempre confermata adesione (magari solo formale, ma certamente conveniente) al Regime, si è sempre occupato dell’Uomo e confinare una delle sue messinscene più rappresentative nel recinto delle opere di impegno civile è un po’ come condannarla alla caducità di quelle affette da extratestualità.
E allora, tutto considerato, non sarà che Pirandello ce l’ha proprio con noi?I giganti siamo noi, in agguato nella vita di ogni giorno, ogni qual volta ci rifiutiamo alla poesia e, con la poesia, all’uomo”.
E’ una vera e propria prova di regia: non a caso a misurarsi con questo spettacolo sono stati i grandi del Teatro contemporaneo, tra cui Giorgio Streheler (in 4 edizioni), Leo de Berardinis e da ultimo, Gabriele Lavia. Lo spettacolo, magnificamente diretto da Claudio Boccaccini, rientra infatti tra quelli per i quali la potenza della partitura evocativa dell’insieme prevale sul copione, tanto che bene dice lo stesso regista nell’efficace esergo esplicativo al pubblico: “godetevi lo spettacolo”.
Ed è esattamente così. E’ uno spettacolo composto sulle illusioni della magia teatrale che si lascia semplicemente godere e insieme interrogare sul senso di questo grande, infernale giocattolo inventato dall’uomo: il teatro. Si sente in ogni momento dell’opera il respiro di Pirandello: la sua passione per la scena, l’unica autorizzata, anzi obbligata, a evocare passioni, disgrazie, accoramenti, sventure, tutte le stazioni dell’esistenza mortale con le sue scorte di esperienze sensitive, qui virate al vertice (tutto è eccessivo, volutamente ridondante, dalle luci, al buio, ai rumori, ma tutto sempre pertinente) perché niente sfugga al racconto di scena.
A contrapporsi sul palco sono due gruppi: gli stravaganti abitanti di una misteriosa villa diroccata detta “La scalogna”, capeggiati da Cotrone, e un manipolo di scalcinati attori, che fanno da coro ossequiente alla Contessa Ilse e al devoto marito, il Conte. Questi ultimi, nel loro stanco peregrinare alla ricerca di scritture, sono convenuti presso la villa con la speranza di poter finalmente rappresentare il copione-feticcio che ha consumato la loro esistenza fin lì. E’ proprio Ilse – consumata dalla febbre artistica e dalla devozione di un giuramento- a rendere le spiegazioni dovute: lei e la sua reduce compagnia cercano di rappresentare da tempo un copione a lei dedicato da un giovane poeta che –senza speranza- si era invaghito di lei e che si era poi tolto la vita. Da qui il voto testardo di rappresentarlo e farlo conoscere a qualunque costo –anche a prezzo della dilapidazione delle risorse economiche di famiglia- e dello sfinimento dei suoi disgraziati, ma devoti sodali.
Cotrone, premettendo che la loro aspirazione non potrà trovare conforto perché non ci sono più teatri dalle loro parti (ammiccante e profetica allusione alle moderne destituzioni degli spazi di prosa…), propone non solo di offrire dimora nella villa a tutto il gruppo attoriale, ma anche di lasciare che la loro opera (la favola de “Il figlio cambiato”) venga rappresentata proprio lì, in mezzo a loro. Avendo voi stessi verificato l’insipienza del mondo circostante -spiega Cotrone- quale miglior posto di questo luogo che si propone come orgogliosa ridotta di poesia e di immaginazione? “Respiriamo aria favolosa. Gli angeli possono come niente calare in mezzo a noi; e tutte le cose che ci nascono dentro sono per noi stesso stupore. Udiamo voci, risa, vediamo nascere incanti figurati da ogni gomito d’ombra, creati dai colori che ci restano scomposti negli occhi abbagliati dal troppo sole della nostra isola”. E così gli abitanti di qui si sono forgiati al fuoco della poesia, dell’incanto e del sogno, emancipati dal prosaico impulso della sopravvivenza, al riparo da lacerazioni e antagonismi.
Ma neanche le dimostrazioni di questa speciale attitudine di quel luogo magico e le spettrali esibizioni dei fantasmi riescono a smuovere dalla sua ostinazione la contessina Ilse: la sua favola deve essere rappresentata in mezzo agli uomini, quasi che a chiamarla a quel compito fosse un dovere pedagogico che avverte come un comandamento. E così l’esausto Cotrone può solo avviarli all’unica platea che potrebbe ospitarli: quella dei Giganti della Montagna, una vicina comunità composta da individui rozzi e brutali, la cui sola evocazione suscita nei presenti moti di paura.
E’ qui che la penna di Pirandello, al capolinea vitale si è fermata: il seguito si dice raccontato sommariamente al figlio Stefano sul letto di morte. E il regista Boccaccini si misura in una sua originale e coinvolgente interpretazione che lasciamo volentieri al piacere della scoperta.
Il corpo attoriale–tanto nel comparto degli scalognati (chiamati ciascuno a una propria personale caratterizzazione, oltre che a una declinazione in vernacolo delle proprie battute) quanto nel gruppo contrapposto- è tutto perfettamente all’altezza della situazione.
Un plauso particolare a Silvia Brogi che veste con malinconica credibilità i panni della Contessina Ilse.
Dobbiamo essere grati al teatro quando trova il coraggio di proporre testi tanto importanti. E quindi uno speciale ringraziamento va al Teatro Marconi e al suo direttore artistico, Felice della Corte, (che interpreta un Cotrone moderno e favolistico allo stesso tempo), che accoglie uno spettacolo di questa levatura per una tenitura di oltre un mese: rimarrà in scena fino al 10 dicembre. C’è da ripagarlo riempiendo il Teatro senza riserve di prenotazioni.
I GIGANTI DELLA MONTAGNA di Luigi Pirandello – Regia Claudio Boccaccini – Compagnia Ass. Cult. Pex: con Felice Della Corte, Silvia Brogi, Marina Vitolo, Marco Lupi, Fabio Orlandi, Titti Cerrone, Marco Pratesi, Andrea Meloni, Anastasia Ulino, Michele Paccioni, e Joele Attianese – Costumi Lucia Mirabile – Tecnico luci e fonica Andrea Goracci -In scena al Teatro Marconi fino al 10 dicembre prossimo
Foto Valerio Faccini