All’Auditorium un «Imbalsamatore» pieno di ironie, con la voce di Popolizio e la direzione di Battista
Le spoglie di Lenin, ancora oggi, sono esposte, sin dalla sua morte avvenuta nel 1924, nel Mausoleo della Piazza Rossa di Mosca. Il mantenimento della salma una volta era a carico dell’amministrazione del Pcus, ma dopo la caduta dell’Unione sovietica (1990) il finanziamento è passato in mano a privati. Se prima del ’90 erano incaricate oltre 200 persone allo studio chimico per la conservazione e alle cure manuali della mummia, oggi il personale specializzato è assai ridotto, tanto che anni fa furono rinvenute alcune macchie sospette sulla pelle del padre della Rivoluzione (1917) e immediatamente si pensò con terrore a un rapido disfacimento del corpo.
Renzo Rosso, nel 1997, prendendo spunto dagli eventi accaduti in quel periodo, ha scritto un monologo tra l’ironico e il grottesco, affidandolo poi alla sensibilità musicale di Giorgio Battistelli che lo ha reso un testo movimentato: un monodramma giocoso da camera, in cui i personaggi sono interpretati sia dalla voce di un attore, che dai timbri e dai ritmi strumentali, tramite i quali si suggeriscono anche le emozioni del narratore. L’imbalsamatore in questione, colui che si occupa delle spoglie di Lenin, è Aleksej Miscin che vive quasi costantemente al fianco del cadavere del suo idolo, considerato, ancora oggi, dal popolo russo, il simbolo del riscatto sociale sull’antica aristocrazia del vecchio impero zarista. Miscin ha avuto una vita sfortunata: abbandonato dalla moglie, niente figli, si ritrova solo, senza amicizie, esposto alla luce soffusa dell’interno del mausoleo e vittima costante di un fastidioso sbuffo d’aria condizionata. Ormai il suo legame confidenziale con Lenin, di cui conosce ogni angolo del suo corpo, lo esorta a confessioni che altrimenti sarebbero alquanto imbarazzanti: riversa le sue delusioni personali facendosi anche portavoce dei malumori della gente di piazza, e ripercorrendo alcune fasi storiche postrivoluzionarie. Lenin, ovviamente, non può rispondere, paradossalmente sembra evitare il dialogo, ma le pause e le interruzioni che Miscin alterna a parole talvolta violente ma soprattutto sarcastiche, offrono l’opportunità all’orchestra di intervenire a tono creando in risposta sberleffi e ammissioni da parte della salma. Le cui vaghe sensazioni vengono enunciate con squilli degli ottoni, con gli sbuffi dei fiati, con gli accordi affermativi o con i dubbi delle vibrazioni sconsolate degli archi, mentre i rimbrotti arrivano tramite le progressioni delle percussioni; chiariamo, non sono mai evidenti risposte di un morto, piuttosto restano riflessioni emotive sospese che vagano nella testa di Miscin. A tratti, poi, l’orchestra (diretta da Tonino Battista) irrompe con frammenti di fanfara che ricordano il periodo d’oro delle ideologie socialiste prima dell’avvento del regime di Stalin. Il despota dal pugno di ferro non viene mai nominato, ma sempre individuato come il tragico erede: figura da cancellare, come ha sottolineato un acuto stridore improvviso. E in effetti fu immediatamente rimosso dal mausoleo dopo che l’entusiasmo di una folla ancora cieca pretese che riposasse accanto al suo predecessore.
In proscenio, davanti a un tulle sul quale sono proiettate esplicative immagini che si accordano al racconto, c’è la folle solitudine di Miscin, alias Massimo Popolizio, interprete sopraffino. Dopo il prologo orchestrale, l’attore entra subito in parte, aggiungendo, oltre alla parola, anche una fisica andatura emotiva. È animale da palcoscenico, che non si lascia certo domare dall’immobilità di un leggio, quindi s’accoda ai movimenti orchestrali con movenze appositamente scomode, segno di una lunga insofferenza, di una frustrazione d’annata. Che può essere sia quella di Miscin, sia quella, più drammatica, dell’intero popolo russo.
Il decadimento è segnato da bottiglie di vodka che scorrono sul telo, dai suoni «scorretti» di un ancestrale rito tribale, dall’enunciazione delle regole primordiali della sopravvivenza: «mangiare, scopare e ubriacarsi», gli esclusivi piaceri di quell’ottuso socialismo. Peggio di così c’era solo la Siberia. E Miscin lo sa. L’alternativa migliore giungeva dalla falsa dottrina della «dittatura del proletariato», cioè milioni di persona al comando: pura follia dello stesso Lenin che suscita l’irrisione del suo imbalsamatore. Il quale però si accorge che la sua stessa derisione sta corrompendo lo stato fisico di Vladimir Ilic, padre delle speranze sovietiche. La severità della politica russa non regge il sarcasmo di Miscin: le speranze crollano, le ideologie si sfaldano, la salma si sbriciola, ma tutto il male, purtroppo, resiste lì mummificato. Sarà, infatti, Miscin stesso, o l’intera popolazione russa, a imbalsamarsi in questa immota gora.
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L’imbalsamatore, monodramma giocoso da camera, testo di Renzo Rosso. Musiche di Giorgio Battistelli, voce recitante Massimo Popolizio, direttore d’orchestra Tonino Battista, con il Parco della musica contemporanea ensemble. Auditorium, Parco della Musica, 11 e 12 ottobre
Foto di copertina: «L’imbalsamatore» di Renzo Rosso, con Massimo Popolizio»